"Il Nuovo Secolo Americano"
Come contributo alla discussione inviamo questo documento inviato da Marco
Melotti della redazione di vis-a-vis


DAL Forum Internazionale "Il piano inclinato del capitale. Crisi,
competizione globale e guerre", Roma, 12-13 aprile, Ore 9.30,  Hotel
Universo (via Principe Amedeo)

Comunicazione di Marco Melotti (della redazione di "Vis-à-Vis" Quaderni per
l'autonomia di classe) http://web.tiscalinet.it/visavis  -
karletto@rm.ats.it

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Il Capitale Totale Alla Prova Dei Conflitti Interimperialistici


1)

Dopo l'evento "Twin Towers", sul falso dilemma americanismo/antiamericanismo
è andata articolandosi una defatigantissima campagna mediatica, cui hanno
ritenuto di dare il proprio contributo ampie schiere di più o meno
accreditati "esperti": un estenuante balletto che ora, nel definitivo,
virulento dispiegarsi di una guerra peraltro mai interrottasi, sin dal 1991,
giunge ad assumere valenze di intollerabile oscenità.

Al di là dell'etimo, che già di per sé invalida la valenza semantica che ai
due termini si è preteso imporre, stravolgendone l'intrinseco riferimento
geografico ad un'intera area continentale, di per sé non rapportabile alla
specifica dimensione geo-politica degli Stati Uniti d'America, resta il dato
inconfutabile che dietro tale "spettacolo", tanto avvilente quanto
indisponente, si obliterano aspetti essenziali della fase che stiamo
attraversando, sia delle sue articolazioni presenti, che dei suoi
surdeterminanti presupposti storici.

Ciò detto, stante la triviale canea delle tifoserie "americaniste", che
vanno instancabilmente scagliando anatemi nei confronti della marea umana
sollevatasi, su scala planetaria, contro l'aggressione all'Iraq da parte di
Bush, precisiamo subito che non si possono pretendere fantomatiche
"dissociazioni", dal regime dispotico di Saddam, da parte di chi in quella
marea si identifica integralmente. Consimili "garanzie", semmai, andrebbero
richieste a coloro che l'autocrazia del satrapo iracheno hanno patrocinato e
foraggiato per lunghi anni, usandola come uno dei tanti "governi fantoccio"
eretti contro l'insorgenza di un anticolonialismo laico e "modernizzatore"
(il cosiddetto nasserismo), troppo recalcitrante rispetto alle ingerenze del
nuovo plenipotenziario yankee, subentrato a Francia ed Inghilterra, nel
contesto del mondo arabo, dopo il crollo dell'Impero Ottomano.

Nonostante tale doverosa precisazione, chi scrive ritiene però di dover
comunque rilevare che, a ennesima conferma di una "regola" non scritta,
afferente all'intero campo della politica, il satrapo tribalista Saddam sta
oggi facendo pagare, all'intero popolo iracheno, il tragico prezzo della sua
illusione insensata di poter giocare impunemente, sullo scacchiere mondiale,
una partita impossibile con i suoi originari "padrini" d'oltre Atlantico.

Se nel 1991, costoro si erano accontentati di ridimensionare il suo regime,
interrompendo la "tempesta nel deserto" onde mantenerlo comunque in vita,
come feroce gabbia di contenimento disciplinare per una regione attraversata
da tensioni in grado di mettere a rischio gli equilibri dell'intera area
mediorientale, oggi, ben altri progetti muovono le armate a stelle e
strisce.

Ed è così che, ancora una volta, il megalomane sogno di una ennesima
"marionetta politica", convintasi di poter giungere a manovrare il proprio
burattinaio, sta immancabilmente infrangendosi contro la dura realtà della
legge del più forte, che da sempre surdetermina qualsiasi gioco inscritto
nell'orizzonte di una politica intesa come "metodologia di potere". La
decisione, presa da Saddam nel 2001, di pretendere il pagamento delle sue
pur contingentate derrate petrolifere in Euro, anziché in Dollari, era
ovviamente finalizzata ad un tentativo di smarcamento dal giogo
statunitense, a favore di una nuova partnership privilegiata con la Ue; ma
probabilmente proprio quella manovra ha offerto l'ultimo decisivo impulso
all'attuale scelta di aggressione da parte di Washington, nei confronti di
colui che nel 1979 era stato insediato al potere proprio grazie ai "buoni
uffici" della Cia, con un golpe che era stato definito, fra i tanti
orchestrati, come il <<preferito>>.

Con quella mossa Saddam aveva di fatto firmato la propria condanna a morte,
andando ad interferire (come il classico "vaso di coccio fra vasi di
piombo") nel nuovo nascente conflitto interimperialistico che segnerà gli
anni a venire: quello fra diverse "aree valutarie" (considerate unitamente
alle relative sfere di influenza finanziaria). E non è certo casuale la fase
di profonda destabilizzazione che sta attualmente paralizzando il Venezuela,
unico altro paese produttore di petrolio che ha compiuto lo stesso passo
dell'Iraq, "in favore" della moneta europea!

Chi credeva di poter affrancarsi da una subalternità totale nei confronti di
coloro che ne avevano supportato strumentalmente l'ascesa al potere, s'è
trovato alla fine dentro un gioco assolutamente troppo grande per lui e ne
sta facendo pagare le estreme conseguenze ad un popolo che ha oppresso per
più di vent'anni e che, malgrado ciò, non può certo esimersi dal resistere
all'odiosa arroganza di chi lo vorrebbe restituire alle "libertà
democratiche" a suon di cannonate ed annessi "effetti collaterali".

Saddam non ha saputo valutare, nella loro abnorme portata, le nuove
dinamiche innestate dalla fine del bipolarismo e della guerra fredda, a
seguito dell'implosione eterodiretta del blocco del "socialismo irreale", e
si riscopre oggi nella veste della povera pedina che non ha mai cessato di
essere!

Intorno a lui s'è instaurata una sorta di cortocircuito perverso, che l'ha
trasformato nel nuovo "nemico" prescelto dagli Stati Uniti, nella loro ormai
esplicita strategia di egemonia planetaria, all'interno di un "nuovo ordine
mondiale" definitivamente incentrato/parametrato su di loro e ad essi
disciplinatamente subordinato. Un nuovo nemico la cui "testa mozza"
costituirà un monito assai eloquente per quanti stanno coltivando l'
aspirazione di attentare in qualche modo alla supremazia incontrastata e
incontrastabile di Washington (a cominciare, ovviamente, dalla Ue che l'
avvicinamente di Saddam aveva certamente stimolato e che, per ritorsione,
non verrà certo invitata ai banchetti del costituendo governatorato
statunitense della Mesopotamia).


2)

Il "fortunato" pretesto per palesare al mondo intero tale loro strategia,
dandole il crisma di un'ufficialità inappellabile, è stato offerto agli Usa,
in modo ultra-spettacolare e con potenza mediatica assolutamente dirompente,
dall'evento delle Twin Towers. Fu lì, che quel "complesso
militare-industriale", già denunciato circa un cinquantennio fa, dal
presidente repubblicano Eisenhower, ed oggi artefice sommo della pur
"faticosa" elezione di Bush, ritenne di poter finalmente uscire allo
scoperto, cominciando a manovrare il proprio pupillo verso la definitiva
esplicitazione programmatica del reale progetto sotteso al suo insediamento
nella "camera ovale".

Fu lì che, per strano paradosso della storia, riemerse il rimosso della
"grande nazione americana", coniugandosi, in modo perversamente "virtuoso",
con la più pregnante attualità del suo presente.

Un presente segnato da una crisi profonda. La crisi di quel modello di
società che, nell'immaginario collettivo dell'intero paese, si sostanzia e
si identifica in modo totale negli "States". Il modello, cioè, del
capitalismo e del suo mercato. Assi portanti, questi, su cui, durante il
secolo XX, si è appunto andata sedimentando la valenza mitopoietica di un
"castello ideologico" trasudante "accoglienza", "libertà", "democrazia",
nella pretesa che siffatte virtù siano costitutivamente ed
imprescindibilmente intrinseche alla decantata "filosofia" dell'"american
way of life".

Evidenziatasi mentre ancora pesava, come un incubo insopportabile, la
disfatta ingloriosa subìta in Vietnam, tale crisi è perdurata di fatto sino
ad oggi.

Una crisi strutturale, di sistema, evidentemente. La più classica
esemplificazione di quanto il Moro di Treviri seppe individuare come
ineludibile contraddizione oggettiva, costitutivamente incistata dentro il
cuore del ciclo accumulativo del capitale: quella "caduta tendenziale del
saggio di profitto" che mina dalle fondamenta stesse il modello di
produzione/riproduzione sociale imposto ormai su scala planetaria, da
Monsieur le Capital.

Quella crisi, comunemente definita "da sovrapproduzione", è andata
implacabilmente erodendo, via via, il sogno tutto "americano" di uno
sviluppo pervasivo e ininterrotto del modello di vita "a stelle e strisce".
E, malgrado gli svariati palliativi di volta in volta escogitati, per
contrastarne gli effetti [1], proprio essa ha costituito, di fatto, un
elemento di destabilizzazione strisciante, nei processi di
autoidentificazione della "nazione" statunitense.

Mentre davvero il mondo, ormai omologato nel segno di una mercificazione e
precarizzazione universali [2], veniva sospinto all'emulazione dell'
"american way of life", in forza dell'inerzialità cogente del mercato
stesso, ormai globalizzato, per strano paradosso, dentro il ventre profondo
della nazione che era stata il primum movens di tali processi, andava invece
lentamente crescendo un oscuro quanto sconosciuto senso di insicurezza.

Dopo i "trenta ruggenti", in cui gli Usa si erano percepiti (allora, con
ragione) come il motore centrale del "nuovo ordine" seguito alla seconda
guerra mondiale [3], e dopo la fugace ripresa di entusiastiche certezze in
un mondo infine unificato sotto le insegne del "libero mercato" e della
"libera impresa", a seguito della "caduta del muro", già dai primi anni
novanta, la dura legge di quello stesso mercato da loro eletto a sommo
arbitro delle umane vicende, cominciò a contraddire in modo impietosamente
evidente il sogno di un'eternizzazione dell'universale "bengodi", di cui
pretendevano aver spalancato le porte al genere umano.

E il peggio fu che i segnali provenienti da quel mondo che si era
"generosamente" provveduto a liberare dal "satana sovietico",
incomprensibilmente, non evidenziavano alcuna riconoscenza. Al contrario,
essi risultavano sempre più allusivi di una sorta di accerchiamento ostile
nei confronti dei "liberatori" e del loro modello di vita (pur spesso
penosamente emulato), sino a minacciare competitivamente il livello di
benessere che questo necessariamente implicava [4].

Insomma, nel momento stesso della sua presunta agognata realizzazione, il
"sogno americano" ha iniziato a sbiadirsi e si è venuta incrinando sempre
più profondamente l'assolutistica certezza nella diade capitale/mercato, da
sempre fondante l'immaginario yankee, in ogni sua pur diversa coniugazione
[5].

D'altronde, gli "spiriti animali" di un capitale fattosi "neo-liberista", in
forza di un dominio planetario sempre più incontrastato [6], ma anche e
soprattutto di un drastico restringimento delle proprie possibilità di
valorizzazione [7], hanno marchiato il ventennio che abbiamo alle spalle,
mettendo alla frusta il "lavoro" in ogni parte del globo. Ma, come già
accennato, ogni escamotage "tirato fuori dal cappello" ha ottenuto solo
piccoli riaggiustamenti insignificanti e momenti di ripresa economica
sostanzialmente effimeri, e non si è potuto impedire che tornasse a
scatenarsi una feroce lotta intestina, fra "potentati economici", al fine
dell'accaparramento di sbocchi di mercato sempre più difficoltosi. Laddove,
smentendo ineluttabilmente le aspettative di un mercato globale in grado di
autoregolarsi armoniosamente, al di là delle classiche strettoie costituite
dagli "Stati-nazione", la classica forma-stato ha mantenuto un ruolo
essenziale sul piano del disciplinamento interno, "trascendendo" invece se
stessa nel nuovo contesto di aggregati politico-economici, sostanzialmente
definiti secondo "aree valutarie" e in crescente concorrenza fra loro, sotto
il morso di una crisi permanente.

La pseudo-categoria di "Impero" [8], che qualche anima bella (nostalgica
dell'attualismo gentiliano) aveva preteso inventarsi, come rappresentazione
di una nuova epoca sostanzialmente "progressiva" e segnata dall'immanenza di
un comunismo inscritto, qui ed ora, in un fantomatico potere costituente
moltitudinario in atto, questa patetica rivisitazione "post-marxiana" dell'
attualismo gentiliano, si sgretola dunque sotto i colpi di maglio di un
capitale fattosi totale, ma ancora e sempre più lacerato dalle proprie
ineludibili contraddizioni materiali.

Il terzo millennio si apre, per tragico paradosso, col ritorno all'antico: l
'incubo della guerra sopravvive, più tremendo che mai, al depotenziarsi
della forma-stato e reimpone all'ordine del giorno la necrosi imperialistica
di Monsieur le Capital, con tutto il tragico fardello che essa ha sempre
comportato per l'umanità tutta.


3)

Di fronte, dunque, all'affiorante incubo di un declino ormai
inaspettatamente percepito come davvero incombente, nella percezione di una
"crisi di sistema" riaffacciantesi proprio nel momento del più assoluto
"trionfo" del "modello americano", ecco che - come si è accennato poc'anzi -
riaffiora il rimosso.

La crisi che sta attanagliando l'intero ciclo del capitale totale, a livello
mondiale, è stata percepita negli Stati Uniti come una "calamità"
riguardante univocamente se stessi, e su tale sentimento, miratamente
fomentato dai media e dal mondo politico, si è costruita dapprima una sorta
di sindrome di accerchiamento e, dopo le Twin Towers, la convinzione di una
minaccia globale alle fondamenta stesse di quella che da più parti
(purtroppo anche "da sinistra") si è voluto accreditare come la "più Grande
Democrazia" del mondo, soprattutto per meriti speciali antinazisti (per
inciso, verrebbe da chiedersi in quale modo, da tali parti, vengano
considerati i venti milioni di morti che l'Urss ha sacrificato contro
Hitler!?).

Se Bush, il vaccaro texano etilista riconvertitosi, sulla via del petrolio
di famiglia, alla "religione dei padri", può impunemente cianciare dei
particolari favori che Dio gli avrebbe garantito, sulle tracce del lontano
predecessore McKinley [9]. Se l'"unto dal signore", insediato "di forza"
alla Casa Bianca grazie ad una cordata di sponsor non propriamente timorati
di Dio, può reinterpretare in senso estensivo la cosiddetta "Dottrina
Monroe", dei primi dell'800, rifacendosi direttamente alla più compiuta
articolazione di essa che fu successivamente formulata da O'Sullivan, nella
"Dottrina del Destino Manifesto". Se, su tali "nobili" basi, Bush può
vantarsi di mantenere il saldo appoggio della grande maggioranza dei suoi
concittadini, nel momento stesso in cui, continuamente, l'evidenza dei fatti
riduce a brandelli le sue reiterate, deliranti promesse [10], il fatto non
può essere attribuibile a meri fenomeni di manipolazione mediatica.

Certo, l'"informazione" artatamente pilotata svolge ormai un ruolo di
condizionamento che non si può non definire "di massa" (e il "caso
Berlusconi", in Italia ne è limpida quanto avvilente riprova). Hermann
Goering ebbe a dire: <<Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre
portato al volere dei capi. E' facile. Tutto quello che dovete fare è dir
loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di
patriottismo e per esporre il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo
in tutti i paesi>>. Ma il fatto sottaciuto dal pur esperto nazista è che, al
fondo della manipolabilità delle coscienze e dei i comportamenti, esistono
ed agiscono, oltre, ovviamente, le determinazioni materiali del tessuto
sociale, anche fattori di condizionamento precedentemente sedimentatisi in
quella "zona d'ombra" che possiamo definire, per approssimazione, come
inconscio o immaginario collettivi.

Se dunque, oggi, il popolo statunitense può sentirsi in diritto di imporre
al mondo quella che lo stesso Kohl, da sempre di stretta osservanza
"filo-atlantica", ha definito come l'indebita "pax americana" (per non
citare l'anatema lanciato a più riprese dal Papa, contro chi si fa
"strumento del diavolo" ricorrendo alla guerra di aggressione). Se esso si
riconosce a larga maggioranza nella politica di potenza, dispiegatamente
militaristica, di un presidente eletto sì e no da un quarto di esso, non si
può pensare che si tratti solo di "sudditanza psicologica" nei confronti
delle capacità affabulatorie dei media o dei ghost-writer della Casa Bianca.
Né, tanto meno, di un disegno lucidamente strumentale e trasparente a se
stesso, come quello che, ad esempio, fu possibile leggere nei comportamenti
operai degli anni sessanta, a favore della "sporca guerra" del Vietnam ed in
aspra collisione con i movimenti pacifisti di quei giovani, sui quali allora
incombeva la minaccia necrogena della coscrizione obbligatoria [11].

No. C'è dell'altro, evidentemente. Ed è il fatto che il "clan Bush", ben
lungi dal rappresentare soltanto un'esigua "oligarchia di destra
radical-nazionalistica" (come amerebbero pensare i "liberal americanisti" di
tutto il mondo), oggi, riesce a parlare alla "sua America", così come non
era affatto riuscito a fare durante la campagna elettorale. E ciò è potuto
accadere perché, dunque, "quell'America" esiste davvero ed oggi è riemersa,
facendosi maggioranza, sotto la spinta del sordo senso di paura che le
infonde la crisi, da cui rischia di venir travolto il suo "modello di vita".

C'è, infatti, un humus culturale, o meglio "ideologico" (in senso marxiano),
nascosto e innervato nelle pieghe di quella che viene comunemente indicata
come l'"America profonda". Esso ha radici lontane, risalenti ai tempi
leggendari dei "Padri Fondatori" e costituisce una sorta di "sfondo"
inamovibile dell'identità yankee. Mille volte esorcizzato nelle forme e nel
lessico della "politica ufficiale" statunitense, e mille volte riaffiorato,
si può forse affermare che esso rechi con sé un senso di colpa mai davvero
elaborato. E una colpa pesante come una orrenda montagna, effettivamente,
segna le origini stesse di quella nazione che troppo facilmente si è voluta
e voluto identificare come "culla della democrazia".

C'è voluto un incallito "radical" ereticale (non certo tacciabile di "vetero
comunismo") come Chomsky, per scoperchiare impudicamente il pozzo profondo
di una memoria collettiva rimossa: la memoria di una "fondazione" intrisa
del sangue di due popoli letteralmente immolati sull'altare dell'
edificazione del "mondo nuovo", gli indiani d'America e i neri africani. I
primi, schiacciati e massacrati in quello che subito divenne il "mito della
frontiera", l'epica della colonizzazione intesa tout court come
civilizzazione modernizzatrice indubitabilmente positiva, i secondi,
schiavizzati e divorati come carburante naturale per quel "mito del
progresso" che andò condensandosi intorno alla crescita vorticosa dell'
economia del nuovo e più avanzato "laboratorio", allestito da Monsieur le
Capital [12], oltre Atlantico.

Ed è triste dover constatare la tuttora perdurante fascinazione, anche di
una cospicua area della "sinistra", nei confronti della pesante, oggettiva
valenza mistificatoria contenuta in quella Costituzione degli Stati Uniti d'
America (in vigore dal 1787) che, comunemente, viene assunta come una delle
più avanzate Costituzioni dell'intera "modernità democratica".

A parere di chi scrive, al contrario, quella prima e certo rivoluzionaria
carta costituzionale fondò il nuovo "Stato della Libertà" su una rimozione
tanto colpevolmente mistificante, quanto drammaticamente densa di
rilevantissime implicazioni, che segneranno l'intera epoca a cui aveva
aperto il passo, quella dell'avvento al potere della nuova classe borghese.
Paradossalmente, quella "Magna Charta" giunge ad essere massimamente
esplicativa di tale avvento, proprio là dove tace, dove più colpevolmente fa
opera di scotomizzazione e di astrattizzazione, rispetto alla realtà
storico-sociale cui pretende dare forma politica: quella realtà, appunto,
indelebilmente marchiata dalla tragedia di due popoli che, per la loro
"diversità", furono semplicemente deprivati del riconoscimento di
qualsivoglia diritto umano.

Chi forse ha più lucidamente evidenziato tale risvolto, costitutivo della
"nazione americana", è stata Hanna Arendt [13], la quale ne ha
malauguratamente avallato l'intrinseca valenza mistificatoria. Facendosi
complice di una distorsione ideologizzante delle determinazioni concrete
degli accadimenti sottesi alla "rivoluzione americana" [14], essa ha di
questa elogiato enfaticamente proprio la capacità di rimuovere l'elemento
condizionante del "bisogno", della bruta necessità, che, al contrario,
"macchiano" a suo dire il 1789 francese! La discepola di Heidegger giunge
così ad involarsi anch'ella, nelle sublimi trascendenze di una "libertà"
conquistata e formalizzata . semplicemente rimuovendo il peccato originale
dell'ininterrotto massacro genocida dei popoli indigeni e della
plurisecolare tratta in schiavitù delle popolazioni africane.


4)

Ebbene, proprio in quella rimozione è probabilmente inscritto il gene di
quegli "isterismi ciclici" (come benevolmente li ha chiamati, qualche
generoso estimatore dell'"americanismo") che da sempre connotano gli Usa.
Come dice bene Chomsky, la sopraffazione, sino a forme di autentico
genocidio, dell'altro da sé, non può non inscriversi in un'irrazionalistica
pretesa di costitutiva (razzisticamente genetica?!) superiorità: una sorta
di mistica del "popolo eletto".

Un approccio alla realtà, quindi, intriso di fondamentalismo religioso e di
una messianica fede nei propri superni destini, dove l'opposizione manichea
fra il "bene" ed il "male", fra Dio e Satana, nega e dissolve la mediazione
della politica stessa, intesa come trasposizione/risoluzione, nelle forme
dell'astratto, della dialettica reale. Le contraddizioni materiali vengono
"semplicemente" negate, in nome di un assolutistico scontro fra polarità
oppositive assolutizzate.

Questo "atteggiamento" riaffora reiteratamente nell'intero arco dei due
secoli di storia degli Stati Uniti, ed ha sempre supportato l'immancabile
consenso interno ottenuto dalle loro ormai infinite aggressioni militari in
giro per il mondo, comunque camuffate, con l'unica eccezione del Vietnam,
delineatasi però soltanto dopo interminabili anni di escalation militare e
di massacri orrendi.

Ma oggi, il contesto di fase cambia radicalmente la valenza dell'ennesimo
"ritorno del rimosso" nelle sembianze del clan del Dr. Stranamore texano.

L'integralismo nazional-militaristico dell'intero staff insediatosi alla
Casa Bianca, pur attingendo alle solite lontane radici (il misticismo
predicatorio dei Padri Pellegrini), si apre oggi su scenari tragicamente
foschi: la crisi che travaglia il capitale totale, e sta erodendo l'egemonia
Usa, ha da tempo devastato quella sfera della politica che il capitale
stesso aveva originariamente delegato alla mediazione/recupero delle proprie
contraddizioni materiali.

Nel corso degli anni ottanta, la politica aveva lasciato il passo all'
economia e la logica aziendalistica d'impresa aveva definitivamente assunto
il comando diretto, al fine di destrutturare quelle "rigidità di sistema"
che la forma-stato recava implicitamente in sé, ai tempi in cui la
conflittualità sociale imponeva margini di redistribuzione e, soprattutto,
quando ancora le dinamiche del ciclo di valorizzazione consentivano l'
investimento in ammortizzatori sociali.

Si era così, di fatto, decretata la morte della politica, nell'illusione che
il mercato globale potesse spontaneamente autoregolarsi . ma le cose, come
si è visto, sono andate in ben altra maniera, ed oggi il più grande colosso
militare del mondo, percependo con terrore la graduale ma continua erosione
della propria "base economica", ed aggrappandosi all'unica incontrovertibile
superiorità che ancora può vantare, sul piano militare, ha deciso
unilateralmente un passaggio ulteriore: dalla morte della politica alla
politica della morte!

La dichiarazione della "guerra totale, permanente e preventiva", che l'
aggressione all'Iraq ha operativamente sancito, e che riguarderà chiunque
sarà ritenuto sospetto di non accettare supinamente l'"egemonia benevola"
dello Zio Sam, costituisce un salto di paradigma definitivo, nel senso che
scardina totalmente ogni parametro di regolazione sino ad oggi usato, nel
contesto delle relazioni internazionali.

Nella risoluzione "National Security Strategy of the United States",
promulgata il 20 settembre del 2001 [15], si esplicita con protervia
assoluta il progetto di una sorta di "bonapartismo su scala globale", in cui
tutti i poteri (legislativo, giudiziario ed esecutivo) siano concentrati in
un unico stato, "legittimato" al ruolo di gendarme unico e inappellabile,
solo in base alla propria superiorità assoluta sul piano militare. <<Un
mondo unipolare in cui gli Stati Uniti non abbiano rivali che possano star
loro alla pari [ed in cui] nessuno stato o coalizione possa mai sfidare la
loro posizione di leader, protettore e poliziotto globale>> [16].

Un tale disegno strategico può evidentemente venir concepito soltanto se,
appunto, si dà per scontato che sia definitivamente decaduto di senso il
"campo della politica" e si ritenga irrefutabilmente instaurato il dominio
arbitrario del più forte!

Non si è più di fronte soltanto ad un'aspirazione competitiva e/o
espansionistica, fra plurimi interlocutori interagenti e comunque omogenei,
sul piano della "soggettività politico-istituzionale", ma all'assurdo
giuridico di un "diritto internazionale unipolare". Laddove, l'instaurazione
di una condizione di conflitto bellico permanente implica, di necessità, la
repressione più ferrea di qualsivoglia forma di dissenso anche (e
soprattutto!) sul fronte delle dinamiche sociali: uno stato di emergenza
senza fine, quindi, entro cui ingabbiare il conflitto capitale/lavoro,
riducendolo a mero "fenomeno di devianza patologica", su cui riparametrare l
'intera macchina repressiva sia a livello globale, che a livello dei singoli
stati, in un unico progetto di orwelliana "istituzione totale".

La posta in gioco, dunque, è assolutamente epocale: da un lato si tratta
della sopravvivenza non già del solo "modello di vita americano", ma del
capitalismo in quanto tale, da un altro lato sono in gioco le stesse sorti
dell'umanità, su cui torna ad incombere lo spettro di un'ennesima ecatombe
bellica, che questa volta potrebbe davvero essere definitiva. E quel che più
risulta drammatico è il livello di totale "incoscienza" di Bush & C.:
inebriati dalla loro stessa propaganda, sembrano essersi autointossicati,
avvitandosi in deliri di onnipotenza davvero "alla Dr. Stranamore". Un'
immane, tragica pazzia megalomane, genocida e suicida al contempo [17]!


5)

L'oscena arroganza della plutocrazia militare statunitense apre dunque a
scenari apocalittici, a fronte dei quali risalta, purtroppo, la limitatezza
estrema della discussione "a sinistra". Al di là delle penose sceneggiate su
"americanismo o antiamericanismo", "guerra corta o lunga", "Bush o Saddam",
"occidente o oriente" [18], tutto quello che per lo più si riesce a proporre
è il ripristino delle regole formali del diritto internazionale, la
rilegittimazione dell'Onu, e nei casi più "estremi" l'accelerazione del
processo costituente dell'Europa Unita, come fattore di equilibrio e
contraltare strategico, rispetto all'arroccamento aggressivo degli Usa.

Decisamente poco, rispetto alla portata della svolta che ha segnato l'
aggressione sostanzialmente unilaterale di questi (che si son persi pure i
fedeli "cugini anglofoni" del Canada e della Nuova Zelanda) contro lo
"stato-canaglia" iracheno. E, soprattutto, se si pensa che il "New York
Times", subito dopo il 15 febbraio, seppe commentare la marea immensa dei
110 milioni di uomini e donne che sciamarono per le più grandi metropoli
della Terra, urlando il loro rifiuto della guerra, come l'unica altra vera
"superpotenza", oltre quella yankee.

In effetti, il giudizio formulato dal quotidiano, coglie nel segno. Se oggi,
a fronte di una serie di poli alternativi ancora molto in ritardo rispetto
ad essi, gli Usa costituiscono la punta avanzata dell'astrattizzazione
spettacolare del capitale, nonché - di conseguenza - la condensazione
imperialistica più compiutamente attrezzata, per il dispiegamento di una
nuova emergenza bellica, su scala planetaria, allora l'unica forza
potenzialmente in grado di contrastarne l'assoluta predominanza può essere
costituita proprio da chi non ne segue la dinamica e si definisce in modo
assolutamente altro.

E quei cento milioni ed oltre di individui che quel fatidico 15 febbraio
hanno deciso di rispondere al tam tam telematico per uscire fuori, nelle
piazze e nelle strade, per marciare insieme, urlando la loro rabbia ed il
loro rifiuto di delegare chicchessia a decidere in loro nome un'ennesima
strage di fratelli e sorelle, quella marea smisurata come mai nella storia
si era vista, all'unisono ha detto no alla barbarie di un "Re" ormai
orribilmente nudo davanti ai loro occhi!

Dentro quella marea traspariva, in nuce, l'insorgenza di una comunità umana
(il "Gemeinwesen" marxiano) che si chiamava fuori dalle regole dello
spettacolo e della mediazione politica, nel contatto diretto del
testimoniare/agire insieme contro un "Potere" percepito come sempre più
distante ed arroccato in una logica totalmente autoreferenziale.

Certo, quella massa smisurata, per ora, riesce ad esprimere più che altro la
forza già comunque di per sé dirompente "dei numeri" (e lo dimostra l'
allarme lanciato dal "New York Times" e la spirale di crescente repressione
in cui si sta cercando di accerchiarla), ma è chiaro che in essa già ora
vive una tensione che va al di là di quella pace, che pur viene richiesta
con rabbia anche esasperata.

Il movimento "per la pace" che si è spontaneamente incanalato nel solco
proveniente da Seattle e, prima ancora, dalla Selva Lacandona, trascende la
pace stessa e aggredisce de facto, radicalmente il "nodo" della guerra,
disvelandone le vere radici nel suo costituire, qui ed ora, il modo d'essere
del capitale ormai giunto al punto del suo massimo sviluppo.

Il no alla guerra, così come il no al neo-liberismo, alludono
inevitabilmente al no al capitalismo tout court.

E proprio per questo è tanto più grave che "da sinistra" provengano segnali
di un ammorbante propensione all'impaludamento nelle secche di un dibattito
tutto formalistico sulla "democrazia e le sue regole", sullo "stato di
diritto", sul "diritto internazionale" e cosi via . divagando.

Ormai in procinto di ridefinire lo scenario del proprio dominio planetario,
riscatenando una guerra interimperialistica fra i propri differenti comparti
produttivi e finanziari (divisi non più per agglomerati geo-politici, ma per
aree valutarie transnazionali), il capitale ha decretato non già l'
estinzione dello stato, ma la fine della "sua" democrazia rappresentativa.
Ciò, nell'invalidazione irreversibile delle regole che soprassedevano al
ciclo della rappresentanza da esso stesso a suo tempo innescato,
funzionalmente alle dinamiche astrattizzanti del proprio ciclo di
valorizzazione.

Dinanzi a tale svolta, cadere (ancora una volta!?!) nella trappola di voler
ostinarsi ad insegnare a Lor Signor come fare il loro mestiere sarebbe
semplicemente mostruoso!

La Terza Internazionale è morta e la Seconda, che quella partorì, giace da
tempo completamente putrefatta, insieme a tutti i suoi sogni di
"social-riformismo".

Se già era illusorio pensare di poter rimettere la "mordacchia" della
politica agli "spiriti animali" di un capitale tanto più insofferente di
regole, quanto più stretto nella morsa di una crisi di valorizzazione via
via più assillante, oggi, di fronte al ritorno impetuoso dei venti di guerra
che minacciano catastrofi inimmaginabili, tale intento diventa addirittura
demenziale. E ben poco vale illudersi che cambi qualcosa, proponendosi di
ragionare "più in grande", magari ricadendo nei vecchi giochini da aspiranti
Machiavelli, all'insegna del tristemente noto ritornello "il nemico del mio
nemico è mio amico". Anche se proprio in tale deleteria ottica, infervorate
moltitudini già si stanno schierando sul fronte di un fantomatico "stato
sociale d'Europa", nell'illusione di poter individuare nell'asse
franco/tedesco l'araba fenice di un keynesismo ormai invece resuscitabile
soltanto in chiave militaristica.

No, il "pacifismo" della Francia gronda del sangue delle popolazioni dell'
Africa centrale ed occidentale, nei cui paesi Parigi non ha mai cessato di
intervenire militarmente, in un'ottica apertamente imperialistica (e
concorrenziale con gli Usa), mentre quello di Berlino non ha evitato la
mattanza pluriennale dei Balcani, scatenatasi proprio per l'iniziale
riconoscimento unilaterale tedesco della Slovenia, in nome dell'area
mittleuropea del "grande Marco". E poi la storia dovrebbe aver ormai
dimostrato ad abundantiam che non esistono imperialismi "cattivi" e
imperialismi "buoni".

Il percorso che si dovrà dunque seguire, non potrà passare per le strettoie
di una politica di alleanze istituzionali, snaturante quanto suicida. Le
uniche alleanze saranno quelle "dal basso", dentro lo scontro quotidiano
contro il dominio e lo sfruttamento capitalistico, sul piano dell'impegno
diretto e personale di ciascuno, verso l'individuazione dei percorsi idonei
a ritessere le trame della memoria e della coscienza di classe, dentro i
processi materiali di ricomposizione di quel proletariato universale che,
solo, potrà ribaltare il tavolo da gioco, su cui l'imperialismo sta di nuovo
allestendo le sue partite di morte.


Roma, 9 aprile 2003


Marco Melotti*



*(della redazione di: Vis-à-Vis Quaderni per l'autonomia di classe)



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NOTE:


1] Anzitutto, intensa finanziarizzazione del ciclo di capitale, ma anche
liberismo neo-monetarista sfrenato, liberalizzazione selvaggia del mercato
del lavoro, ritorno massiccio all'estorsione di plusvalore assoluto (sino a
forme di sfruttamento che si sarebbe portati a definire come "schiavitù
salariata"), smantellamento del welfare e sua sostituzione col warfare (una
sorta di "cripto-neo-keynesismo" in salsa militarista), ecc.


2] Inevitabili pendant dell'ingannevole miraggio di un'opulenza consumistica
tanto sbandierata, quanto di fatto negata ai più.


3] Un ordine segnato dal conflitto a bassa intensità col "nemico d'oltre cor
tina", da cui essi traevano semplicistica quanto strumentale conferma per il
loro autoidentificarsi quali "alfieri delle libertà democratiche".


4] L'autentica sindrome da mania di persecuzione che assalì gli States, al
tempo del rampatismo espansionistico dell'economia nipponica, sotto le
bandiere del "toyotismo", fu un segnale molto eloquente in tal senso. D'
altronde, è pur vero che lo "Zio Sam", dal secondo dopoguerra, per lunghi
anni, ha potuto contare su una notevole "compattezza interna" (cioè una
drastica atrofia della dialettica di classe), proprio grazie ad un "mondo
del lavoro" rabbonito e reso complice, tramite laute redistribuzioni di
quanto garantiva l'assoluta egemonia politica ed economica degli Usa sull'
"occidente".


5] Di fatto, essa costituisce il fil rouge che, nella storia degli Usa,
riconduce ad un'intrinseca univocità paradigmatica anche "logiche politiche"
profondamente divergenti, come, ad esempio, il "roosveltismo" e il
"maccartismo".


6] L'Urss, oltre che dalle proprie contraddizioni interne, fu letteralmente
strangolata dalla rincorsa sul piano militare, nei confronti di Reagan.


7] Il ciclo di lotte, non solo italiane, del decennio '68/'77 fu sconfitto,
in buona sostanza, grazie alla ristrutturazione tecnologica su base
telematica (il "chip"!), che stravolse completamente l'intero ciclo
produttivo, flessibilizzando la forza-lavoro e frantumando i luoghi fisici
della sua compattezza e rigidità (le megafabbriche e le "catene"
meccaniche), nonché introducendo un processo di "glocalizzazione"
(ri-localizzazone su scala globale) e velocificazione permanenti dei
processi produttivi, lungo filiere estese attraverso l'intero pianeta. Si
giunse, talvolta, ad un autentico "delirio pantecnologico" finalizzato all'
autonomizzazione del capitale rispetto alla forza-lavoro, ma l'ineludibile
necessità dello sfruttamento di questa, ai fini della valorizzazione, ben
presto ebbe ragione di tali demenzialità, anche se alla fine è certo che
quell'epocale innovazione tecnologica innescò un processo di aumento
esponenziale della composizione organica del capitale e, quindi, di quella
caduta tendenziale del saggio di profitto che mina alle fondamente il ciclo
stesso della valorizzazione capitalistica, sin dalle sue origini. La
risultante inevitabile ne fu la crisi di cui si sta qui trattando, che si
esprime nell'attuale situazione di un mercato globale segnato da una domanda
cronicamente sottodimensionata, rispetto alle reali potenzialità/necessità
accumulative del sistema complessivo.


8] Il riferimento, qui, è a Toni Negri il quale, evidentemente, oltre che
dello spiritualista Gentile, è raffinato esegeta anche di Karl Kautsky e
della sua teoria dell'"ultraimperialismo".


9] Il presidente William McKinley, verso la fine del XIX secolo, dichiarò
che era stato investito da Dio del nobile compito di "papparsi" le
Filippine, per civilizzare e cristianizzare i suoi abitanti.


10] Le smentite che la realtà dei fatti ha prodotto, ai danni di Bush e del
suo staff, sono ormai un dato acquisito ed è inutile soffermarvisi. Dalla
scontata cattura di Bin Laden, alla rapida pacificazione democratica dell'
Afghanistan, dall'affrancamento delle donne afghane dall'oppressione
talebana, allo sbrigativo e trionfale successo dei liberatori anglosassoni
in Iraq, dall'amicizia fidatissima della Turchia, alla guerra chirurgica
contro i solo pochi sostenitori di Saddam, agli ultra-garantiti sistemi d'
arma intelligenti, ecc.ecc., tutte queste "certezze" decantate da Bush, alla
prova dei fatti, si sono dissolte come neve al sole . del deserto; il che
non potrebbe che rallegrare chi scrive, se non fosse per le ricadute orrende
che l'operato di tale "invasato" va producendo su migliaia e migliaia di
esseri umani!


11] Oggi, la leva obbligatoria negli Usa è stata abrogata e l'esercito è
composto di mercenari, sia pur immancabilmente di estrazione proletaria: la
certezza di una sorta di "morte civile" da disoccupazione, purtroppo, può
pesare di più del "solo" rischio di una "morte bellica!


12] <<Negli Stati Uniti, ad esempio, si rese necessario individuare delle
giustificazioni per l'eliminazione della popolazione indigena e per l'
economia basata sullo sfruttamento della schiavitù (compresa l'economia del
Nord nel primo periodo; il cotone era il petrolio della rivoluzione
industriale del XIX secolo). L'unico modo per giustificare il fatto che tu
stia schiacciando sotto il tuo stivale il collo di qualcuno è sostenere che
tu sia incredibilmente ed esclusivamente magnifico e che l'altro sia
incredibilmente ed esclusivamente orribile. È una delle fonti principali del
razzismo, che ancora esiste, tanto è introiettata nella nostra cultura ­ e
in quella dell'Ovest più in generale ­ che va al di là delle coscienze e
che, una volta messa in evidenza, può a malapena essere capita da chi è
debitamente istruito>> (Noam Chomsky, " No War", in "Chomsky sulla guerra"
su "ZNet Sustainer Program", 31 Marzo 2003).


13] Hanna Arendt, "Sulla rivoluzione", Edizioni di Comunità, Milano, 1983.


14] Atteggiamento, questo, certo più giustificabile in un Tocqueville, il
quale, da figlio del suo tempo, non poté sottrarsi al fascino della nuova
forma-stato nata dalla "rivoluzione americana".


15] L'esigua distanza dal 11 settembre fa ben comprendere che, di fatto, il
documento era già pronto sin da prima dall'evento delle Twin Towers, che ne
"legittimò" l'"ufficializzazione". D'altronde, com'è ormai stranoto, fin
dagli anni '90, nell'"associazione" Project for New American Century
(www.newamericancentury.org), i cui componenti sono oggi tutti nello staff
di Bush, si andava maturando la scelta strategia che oggi trova applicazione
concreta. Nel documento "Rebuilding America's Defences: strategy, forces and
resorces for a new century", stilato nel settembre 2000, si legge:
<<Inoltre, il processo di trasformazione, anche se implica un cambiamento
rivoluzionario, probabilmente sarà lungo, in mancanza di un evento
catastrofico e catalizzatore - come un nuovo Pearl Harbour" (p. 63) !


16] G. John Ikenberry, in "Foreign Affairs", Settembre/Ottobre, 2002.


17] Rasenta ormai l'incredibile, il livello di tracotante aggressività con
cui si urlano al mondo i propri "diktat" e le proprie minacce di ritorsioni
per i disobbedienti, da parte di Bush e dei suoi più stretti collaboratori !


18] E meno male che il Papa, con la posizione radicalmente pacifista che ha
subito assunto, ha di fatto troncato sul nascere l'ennesima, demenziale
diatriba su "Islam o Cristianesimo" !


 

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