Bassora libera.



I colleghi italiani arrivati a Baghdad nel mattino, dopo il fermo di ieri a
Bassora da parte dell¹esercito iracheno, una notizia l¹hanno portata:
Bassora è libera.
Ma dagli americani e dagli inglesi che non sono mai riusciti ad occuparla.

Dopo un viaggio in jeep, senza alcuna scorta armata, durato tutta la notte e
che ha portato la carovana di giornalisti ³clandestini²lungo le strade
sgombre di guerra e bombe che costeggiano le sponde del Tigri, lungo il
confine iraniano, fino ad Amara e poi Kut. Tra piste sabbiose e larghe
strade asfaltate sono entrati a Baghdad dal lato est superando, lì si, i
pericoli delle bombe e dei missili sganciate a centinaia al giorno dalle
truppe anglo-americane.

Stanchi, affaticati ma anche rincuorati dal buon trattamento riservato loro
dai soldati, hanno affermato, durante improvvisate conferenze stampa ed
incontri anche con i reporters indipendenti, di non essersi sentiti mai
³progionieri², di aver dormito allo Sheraton di Bassora e dopo il lungo
viaggio notturno, un breve e formale interrogatorio nella sede del ministero
della Difesa dove gli è stato offerto di rimanere nella capitale per
documentare la guerra di aggressione che la città subisce esausta da giorni.
Nessuna Espulsione. Rimanere a Baghdad, dunque, ma questa volta con tutti
permessi del caso.

La notizia tuttavia più clamorosa e sconcertante allo stesso tempo è quella
di aver svelato le bugie, le menzogne e la propaganda degli stati maggiori
degli Stati Uniti e dell¹Inghilterra che davano la Penisola di Fao e Bassora
totalmente sotto controllo anglo-americano. I colleghi che ­ attenzione ­
vanno da ³Il Corriere della Sera²a ³Il Giornale², da ³Il Messaggero² a
³L¹Unità², passando per ³Il Resto Del Carlino² fino a ³Il Mattino²ed ³Il
Sole 24 Ore, come dire storie personali e professionali diverse, con
sensibilità e attenzioni diverse rispetto alla guerra, concordano, quasi in
coro, che di truppe americane ed inglesi non ne hanno vista traccia.
Bassora, ad esempio, pesantemente bombardata, privata dell¹acqua e di cibo,
piange un numero di vittime e feriti non calcolabile. Una città allo stremo,
insomma, che ha respinto l¹offensiva degli invasori. L¹ha respinta con
successo, pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane. Ma l¹ha
respinta. E non ce l¹ha raccontato nessuno. Ed anche gli stessi colleghi che
tentavano di arrivare da ³clandestini² a Bassora, si erano imbarcati per
l¹avventuroso viaggio da Kuwait City convinti di finire la corsa tra le
braccia degli americani e degli inglesi che da giorni, come andavano
scrivendo seguendo i briefing dell¹ufficio stampa degli Sati Maggiori,
occupavano ed avevano ³liberato² la città del sud Iraq.

La sorpresa, di non trovare neppure uno dei soldati ³alleati²è stata pari a
quella di essere fermati da una pattuglia di soldati iracheni, in normale
giro di ronda.

E così le altre città, cittadine e paesi incontrate durante il lungo viaggio
notturno: insediamenti urbani magari violati, colpiti, bombardati che
nascondevano chissà quante storie, quante vittime che non finiranno mai sui
giornali. Ma neppure un ³liberatore².

Ed ora, francamente, c¹è da chiedersi, anche con un po¹ di rabbia e
sgomento, quale guerra, e con quale onestà intellettuale, ci viene
raccontata dai grandi network televisivi, dalle ³truppe² di giornalisti
presenti in ogni dove. Dove raccolgono le loro notizie, quali sono i canali
d¹informazione accesi.

I miei contatti, mi dicono di essere rimasti sbalorditi ed increduli nel
sentire che il poco o tanto che erano riusciti a captare seguendo da Baghdad
i canali satellitari, le rare volte che è stato possibile, erano solo
menzogne. Propaganda degna dei peggiori film di guerra.

Sarà interessante, mi dicono, dopo la giornata di oggi, con la testimonianza
oculare (e vissuta sulla propria pelle) di sette colleghi di testate
accreditate come ³prestigiose²ed influenti per formare l¹opinione di milioni
di cittadini, vedere se la stampa ³ufficiale², i loro stessi giornali, le
testate europee, cambieranno registro nel raccontare la guerra.

Ma la guerra non è un film. Baghdad è una città in ginocchio, martoriata,
lacerata. ferita, che piange i propri morti.
Mi riferiscono e mi confermano che in effetti le linee telefoniche con le
altre aree del paese sono interrotte e non ci sarebbe stato modo in questi
ultimi giorni di potersi accertare delle reali condizioni del sud del paese.
E mi dicono di un paradosso del quale non riescono a liberarsi: persino i
reporters indipendenti erano convinti dell¹occupazione del sud Iraq, ma da
notizie che provenivano dall¹Europa, dai satelliti, e dalle comunicazioni
dei familiari, degli amici. E persino dai mei velocissimi report che fornivo
loro durante i nostri contatti.

Ma è ancora difficile descrivere, dar corpo, alla realtà di Baghdad, le
storie dei cittadini, le distruzioni scientificamente provocate nei
quartieri residenziali, il dolore, la rabbia, il sangue, le fosse nella
terra nelle quali sono costretti a seppellire i propri cari in fretta e
furia per paura di epidemie. La paura che si è impadronita di tutti.
L¹angoscia dell¹attesa dell¹arrivo dei combattimenti dentro la città che
tutti pensano imminenti. Appena al di là di quella cortina di fumo, lampi e
boati che disegna tutto l¹orizzonte della capitale.

Tutta la giornata di oggi, è stata vissuta nell¹attesa dell¹arrivo a Baghdad
dei giornalisti italiani. Poi l¹incontro al ³Palestine² hotel. Lo stupore
della propaganda, l¹indignazione per le menzogne.

Ma stasera continueranno le bombe, non si fermeranno i missili.

L¹appuntamento per tutti è al ³Palestine²dall¹altra parte del fiume. Tutti
insieme: reporters indipendenti, i colleghi dei grandi networks televisivi,
delle testate ³prestigiose², i 7 ³clandestini² italiani, gli³humans
shields².
Al ³Palestine²ancora si può trovare qualcosa di decente da mangiare. Una
sera ogni tanto ci vuole. Anche a Baghdad.

Poi di nuovo la notte, attraversare in tutta fretta il ponte o correre
perché il giro è più lungo fino al cuore della città, dove ci sono le case
ed i piccoli alberghi che ospitano tutti loro. Un saluto in fretta, un
abbraccio. Mi raccomando, si dicono l¹un con l¹altro, domattina alle 9.30 ci
vediamo al Ministero dell¹Informazione. E¹ questo, quasi un rituale, il
primo appuntamento della giornata.

Anche se da ieri ci si incontra in strada, davanti al Ministero. Le bombe lo
hanno piegato. Ma l¹appuntamento è sempre lo stesso, tutti i giorni, come a
ribadire con forza: noi ci siamo.

 

L'assedio.



La sottile linea rossa che divide i cittadini di Baghdad dalle armate
anglo-americane passa subito dietro l¹università, e come l¹ansa di un fiume
attraversa l¹area del Saddam International Airport fino alle caserme di
addestramento della Guardia Repubblicana nell¹area sud della capitale.

La voce al telefono mi giunge chiara, asciutta, senza modulazioni che possa
interpretare come stato d¹animo di paura o di agitazione. Una voce che mi
parla di guerra. Una voce dalla guerra.

Mi chiede di diffondere questa notizia: ³siamo in sei attualmente a Baghdad,
in contatto tra noi. Conosciamo benissimo i rischi che stiamo per
affrontare, ma siamo organizzati e consapevoli di come muoverci. I luoghi di
riferimento che ci siamo dati sono in ordine: l¹hotel ³Palestine², l¹ hotel
³Sheraton², gli uffici dell¹Ambasciata russa, e la Nunziatura Apostolica.
Tutti luoghi, questi, che siamo in condizione di raggiungere e dove saremo
in grado di trovare riparo ed assistenza, qualora non ci trovassimo nelle
condizioni minime di sicurezza per affrontare la notte o gli eventi che
potranno accadere nei giorni prossimi a Baghdad².

La città da questa mattina è completamente militarizzata. Migliaia di
soldati sono schierati nelle piazze e lungo le strade principali. Cannoni di
diverso diametro sono montati su camion, autoblindo e su piccole e agili
fuoristrada. Trincee sono state scavate lungo gli argini del Tigri.
Persino sui tetti di molti edifici si possono notare soldati ed armi.
Batterie di missili, montate sui mezzi militari, si muovono lentamente
all¹interno della città.
Impossibile raggiungere l¹università, la si può vedere solo da lontano e
solo la parte degli edifici risparmiati dai bombardamenti dei giorni scorsi.
Posti di blocco misti, polizia ed esercito, bloccano tutte le strade, anche
le lunghe ³scorciatoie² spesso usate dai reporters indipendenti per
spostarsi senza problemi.
Gruppi di civili, (forse ³feddayn²) organizzati in ³squadrette² di una
cinquantina di persone ciascuna pattugliano su e giù le principali arterie
della città e spesso si uniscono ai militari, per poi allontanarsi subito
dopo.

In tutta la città manca la luce, anche i piccoli ³bazaar² che fino a ieri
resistevano aperti sono ora chiusi. Sprangati, coperti di assi di legno e
lamiere di ferro inchiodate sulle porte e sulle vetrine.

Due colonne di automobili, furgoni e pick-up sono incolonnate in direzione
nord, tentando di raggiungere le grandi autostrade che salgono in direzione
di Giordanie e Siria.
Interi nuclei familiari, 6/8 ed anche 10 persone tra uomini, donne, bambini
ed anziani si stringono, pigiati gli uni sulgli altri negli abitacoli dei
veicoli. Sul tetto, e spesso legato con le corde sopra il cofano posteriore,
tutto quanto sono riusciti a portare con loro.
Valige, tappeti, materassi, quadri, piatti e pentole, abiti. Ed anche
televisori, videoregistratori, radio e ventilatori.
Su di un pick-up Toyota, sulla cima di una pila di indumenti ed oggetti, una
coperta decorata a tinte forti copre una grande gabbia in legno e ferro
piena di pappagalli coloratissimi.

Una lunga fila di iracheni muove nella stessa direzione delle auto, ma a
piedi, con la schiena curva piegata dal peso di un trasloco innaturale che
fa penzolare le braccia in basso ed in avanti come a cercare aria e spazio.
Tenuti, trascinati per mano molti, tantissimi bambini stupefatti ed
impauriti.
Nessuno di loro sa esattamente dove andare, quale direzione prendere, dove
arriverà mai a posare quel carico spaventoso legato con corde e cinghie al
proprio corpo.

Alle 19.15 ora italiana, mi riferiscono che neppure un soldato
anglo-americano od un mezzo militare dell¹esercito d¹occupazione è
penetrato, e quindi presente, all¹interno dell¹area urbana di Baghdad.
Sulla battaglia dell¹aeroporto di questa notte e di questa mattina si
rincorrono voci incontrallabili. Molti cittadini parlano di oltre cento
soldati invasori uccisi dalla resistenza irachena nell¹area dell¹aeroporto.
Le notizie che si raccolgono in città sostengono che il Saddam International
Airport è tuttora sotto il controllo dell¹esercito iracheno.

Nessun corridoio umanitario è stato aperto per soccorerre la popolazione:
quella in fuga, con migliaia di persone abbandonate a loro stessi, e la
stragrande maggioranza dei cinque milioni di abitanti la capitale chiusi,
rannicchiati nelle case, artigianalmente fortificate, a dividersi quanto
resta nelle dispense per poter mangiare e bere.
Negli ospedali i ricoverati sono stati concentrati nei piani bassi e e nei
sottoscala, privi di medicine e cure sanitarie, alla luce dei lumi ad olio,
assistiti solo dagli straordinari medici ed infermiere iracheni.

E¹ la seconda notte d¹assedio questa che Baghdad è costretta ad affrontare
senza che nessun Governo, oppure il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite, l¹Unione Europea, e neppure il Parlamento Europeo
abbiano alzato un dito, un grido, un allarme, un appello concreto per
aiutare la popolazione irachena, per cercare di salvare milioni di uomini
donne e bambini intrappolati da un¹esercito invasore che ha unilateralmente
dichiarato una guerra illegale, ingiusta e crudele.

E con questa frase, colta negli ultimi secondi della comunicazione
telefonica prima che si interrompesse, avverto che la voce asciutta e secca
che avevo colto pochi minuti prima è come incrinata, mossa da un brivido di
sdegno e di orrore. Ma anche di paura. Una paura condivisa e vissuta con i
cittadini di Baghdad in questa lunga notte d¹assedio.

 

Questa e la guerra?



La jeep Hammer sporca di polvere e fango con le insegne ³UsArmy²
avanza lentamente proprio dietro l¹Università. Dietro di lei un convoglio di
almeno 15 altri mezzi militari ³leggeri².
Su ciascuna è montata una mitragliatrice pesante, quelle con il nastro dei
proiettili grandi come un dito che esce dai due lati del caricatore. Tre
uomini, tre soldati americani con elmetto con un copri-elmo mimetico, una
giubba di cotone pesante beige dalla quale escono piccoli fili e cavi
arrotolati che rimandano agli auricolari ed ai sistemi di comunicazione. Il
soldato che ha per le mani l¹impugnatura della mitragliatrice sembra
immobile, concentrato sul mirino elettronico dell¹arma.

La colonna avanza in un silenzio irreale di tanto in tanto interrotto dai
tonfi cupi e secchi che provengono dalle granate lanciate poche strade più
in là dai carri armati dell¹esercito invasore.
Improvvisamente e senza nessun motivo la mitragliatrice gira la canna verso
un¹abitazione chiusa al primo piano di un piccolo edificio bianco e parte
una raffica di colpi. Decine, centinaia di proiettili che vanno a sfondare
le deboli protezioni in legno e lamiera di ferro delle finestre, facendo
rimbalzare dappertutto schegge di intonaco e di legno. Frantumando i vasi di
terracotta pieni di fiori che ancora ornavano in modo ordinato il piccolo
balcone. La ringhiera di ferro che proteggeva la porta della casa piomba a
terra e viene calpestata dalle ruote dei grandi fuoristrada che continuano
la loro avanzata.
Sdraiato a terra dietro le finestre chiuse ed oscurate con carta di
giornale, a soli cinquanta metri dalla pattuglia degli occupanti un reporter
indipendente è testimone diretto dell¹azione che mi descrive con grande
emozione.

Attualmente si trova in un frequentato albergo della capitale, decisamente
più al sicuro, ma quello di cui è stato testimone oggi difficilmente lo
potrà dimenticare.

Fin dal mattino i colpi, le bombe, i missili hanno colpito le aree sud, nord
ed ovest di Baghdad. Dalle 11.00 tutti sono stati informati attrraverso i
megafoni dei soldati e della polizia del coprifuoco che sarebbe scattato
alle 18.00 e proseguirà almeno fino all¹alba.
Il problema quindi per il mio contatto è spostarsi rapidamente, con
prudenza, fino ad arrivare proprio nella zona dell¹Università, la più
martoriata della capitale dove è l¹appuntamento con altri due colleghi.
Il centro della città è completamente in mano dell¹esercito iracheno e dei
numerosi ³feddayn² in borghese ed armati che camminano nervosamente su e giù
per le strade. Il traffico è pari a zero, la circolazione delle auto ridotta
al minimo. Solo un pizzico di fortuna fa incrociare le strade del reporter
con un vecchio autobus diretto verso sud. Lo prende al volo, molto attento
alla strada percorsa dal bus per evitare di trovarsi in zone sconosciute
della città.
All¹altezza del Ministero dell¹Informazione, si rende conto che praticamente
tutta l¹area residenziale attorno alla piazza è stata bombardata, e sono
ancora visibili a terra alcune vittime coperte di pietre. Come fosse una
pietosa sepoltura.
Pochi metri ancora poi decide di scendere dal bus. Meglio cercare di
proseguire a piedi.
Poco oltre il centro televisivo della IraqiTv, un capannello di persone
smbra discutere animatamente. Un giovane alto e magro con una ³kefiah²
bianca e rossa arrotolata intorno al collo si esprime in inglese e mette in
guardia il reporter dal proseguire oltre quella piccola aiuola che delimita
un incrocio. Non meno di dieci o dodici automobili sono completamente
carbonizzate. Alzando lo sguardo, l¹intera facciata di un palazzo di 6 piani
è sventrata in ogni sua parte. Finestre divelte, mobili ed infissi sparsi
ovunque. Il ragazzo iracheno con espressioni sincopate riesce a descrivere
ciò che è accaduto neanche un¹ora prima.

Siamo nell¹area immediatamente adiacente alla periferia sud di Baghdad.
Oltre questi palazzi nessuno si avventura.

Una colonna di blindati e jeep americane sono arrivate fino alla piazza,
travolgendo le aiuole che la delimitavano e sparando sulle vecchie auto
parcheggiate. Dopo un mezzo giro della rotonda si sono come schierate di
fronte a quell¹unico palazzo ed hanno aperto il fuoco. Con durezza, mirando
a tutto ed a niente, sventrando muri e penetrando negli appartamenti. Dopo
pochi minuti almeno un gruppo di inquilini si sono precipitati fuori
gridando e piangendo. I soldati sembrava come li aspettassero: inseguiti,
strattonati e gettati a terra. Con dei lacci di plastica bianca venivano
serrati i polsi dietro la schiena. Quindi presi per i capelli le teste
ficcate di forza in cappucci neri. Poi i calci, gli sputi, i manici dei
fucili usati come clave. Trascinati a terra per decine di metri e butatti
dentro degli autoblindo.

Questo trattamento è stato riservato ad almeno cinquanta civili disarmati,
in gran parte donne, vecchi e bambini che abitavano nel palazzo senza più
luce, acqua, medicine. Prigionieri della loro stessa casa da più di sei
giorni.
Sei giorni di paura e di angoscia. Terminati questa mattina con un autentico
sequestro di persona multiplo a danni, mi ripete il mio contatto, di civili
disarmati.
Finita l¹²operazione militare², la colonna di mezzi americani ha completato
il giro della piazza ed è scomparsa nelle strade polverose che portano verso
l¹aeroporto.

Il ragazzo iracheno capisce il disagio del reporter europeo. Uno straniero
ma non un nemico, e lo invita ad andare poco più in là, fino ad un garage,
quasi nascosto dalle rovine di un bombardamento dei giorni scorsi.
Questa è la guerra? Chiede senza ottenere risposta, Questi sono gli
americani che ci devono liberare? Gli uomini che dovremmo rispettare perché
sono venuti a tutelare i nostri diritti umani?
Tu cosa faresti se fossero i membri della tua famiglia quelli presi a calci,
incappucciati e portati via da soldati stranieri?

Il reporter non sa cosa rispondere, pensa all¹appuntamento che deve
rispettare, al coprifuoco che si avvicina, a cosa troverà andando oltre quei
palazzi.

Ma il ragazzo iracheno lo incalza: dimmi tu che sei europeo cosa pensano i
cittadini dell¹Unione Europea di questa guerra?

Vieni a vedere la mia casa, è proprio qui sopra. I due salgono in fretta le
scale ed arrivano di fronte ad una porta di legno dove Feisal, così si
chiama il rgazzo, con due colpi dei piedi si fa aprire. Il reporter entra e
trova almeno dieci persone, la famiglia di Feisal, a terra, chi sdraiato chi
seduto. Gli fanno cenno di non parlare, di sedersi, di non far rumore. Il
terrore è stampato su quelle facce con la barba lunga, su quei visi
femminili circondati da un velo.

Poi di colpo, di nuovo, il rumore dei mezzi militari.
Feisal sbircia dietro i giornali che coprono i vetri delle finestre. Gli
americani, gli americani quasi grida, e tutti si abbassano a terra. Feisal
porta il reporter nella sola altra stanza della casa e lo invitaa guardare
fuori.
La colonna di 15 jeep Hammer. Con le scritte ³UsArmy². Quelli che hanno
fatto fuoco contro quel balconcino del primo piano dove ancora c¹erano i
vasi di terracotta peini di fiori.

Questa è la guerra? Chiede ancora Feisal.
Già, questa è la guerra?

Dopo circa mezzora Feisal, venuto a sapere il luogo dell¹appuntamento del
reporter con i suoi colleghi si offre di accompagnarlo lui. In auto. Ma non
fino all¹hotel, sarebbe troppo pericoloso per Feisal tornare indietro.
Scendono di nuovo in strada e dopo aver parlato fitto fitto in arabo con
altri due ragazzi, Feisal viene raggiunto da una vecchia Renault con altri
ragazzi a bordo. Il reporter entra, zaino sulle ginocchia. Gli occupanti per
fargli posto sono costretti a spostare due mitra e due fucili e si tirano la
³kefiah² sul viso.

Dieci minuti di corsa per strade impensabili, fossi e prati, entrare ed
uscire da magazzini abbandonati, poi l¹auto si ferma. Il reporter scende, fa
un cenno di saluto a Feisal ed agli altri.

Vedi, gli dice Feisal, noi siamo ³Feddayn², può darsi che tra un¹ora, domani
o tra qualche giorno saremo morti combattendo. Cosa diranno i giornali del
tuo paese? Che siamo dei ³kamikaze², che abbiamo ucciso a sangue freddo dei
ragazzi del Colorado o della California che erano venuti a portarci la
libertà, a difendere i nostri diritti?

Tra quei civili incappucciati e brutalizzati che non sappiamo neppure dove
siano finiti, e perché gli è stata distrutta la casa e loro fatti
progionieri c¹erano i genitori si Saul. Ed indica il ragazzo con i capelli
neri lunghi alla guida dell¹auto.

Questa è la guerra? Chiede un¹ultima volta Feisal prima di rimontare in
macchina ed allontanarsi in una nuvola di pietre che schizzano lanciate
dalle ruote della macchina.



Ecco le corrispondenze che mi arrivano da Amman, di Rosarita Catani, che ha
seguito i notiziari delle 19.00 e delle 23.30 (ora giordana) del canale
satellitare ³Al Jazeera² e della televisione giordana.


di Rosarita Catani
da Shafa Badran
(Amman)
Giordania

6.4.2003 ­ h. 19.00.
Il cielo di Bagdad è nero. Non c¹è un cielo a Bagdad. E¹ pieno giorno ma
sembra notte inoltrata.
Fa caldo! L¹aria è ancora più irrespirabile per il fumo e per il caldo.
Sento i rombi degli aerei. I missili cadono come pioggia.
Eccolo! Lo vedo. Ecco un altro colpire una casa. Si vedono i pezzi saltare
in area.
Il giornalista di Al Jazeera commenta le immagini.
Mentre commenta si guarda intorno. Sussulta ad ogni scoppio.
Guardo le immagini ed avverto la paura. Una paura che si trasmette oltre il
video.
Me la sento addosso.
Il giornalista volta la testa appena sente il rombo di un aereo. Lo fa
vedere. Il suo sguardo è cupo.
Sento lo scoppio delle bombe. Sembra d¹averle qui in casa. Ho paura anche io
adesso.
La città è deserta.
Si vede solo questa cortina di fumo nero ed il fuoco.
Oggi i bombardamenti sono ancora più forti, più accaniti. Bombardano ovunque
oramai. Non mirano più ad obiettivi precisi.
Le immagini si spostano su Bassora.
Ci sono stati violenti combattimenti fra le milizie irachene ed i soldati
britannici.
Una carovana di carri armati britannici si dirige verso Bassora. Sono
arrivati alle porte della città.
Sparano colpi di cannone. Colpite abitazioni civili.
Entrano nella città con i loro dhabbah (carri armati).
La città è già martoriata.
La televisione araba comunica che molto probabilmente i feddayn scenderanno
in azione questa notte per colpire i soldati britannici.


6.4.03
Notiziario delle 23.20 ora locale.

Continuano i bombardamenti. Non si ha respiro.
Gli ospedali sono pieni. Non c¹è più posto.
Non si conosce né l¹entità dei danni ancora né l¹entità delle vittime.
Guardo il sangue scorrere negli ospedali. Sento l¹odore della morte. Si
sente l¹odore della morte.
Bambini. I bambini che pena.
Portano un bambino ferito, che piccolo, avrà si o no due anni. E¹ colpito
alla testa.
Non c¹è posto. Li mettono per terra i feriti.
Vedo i medici correre da una parte all¹altra.
Una signora piange: ³Bush non vuole la pace. Noi chiediamo la pace, lui non
sa neanche cosa significa la Pace. Uno dei miei figli non so neanche dove
sia e l¹altro è in ospedale con una gamba rotta². Urla! E¹ l¹urlo disperato
di una madre.
Si asciuga le lacrime con il suo ishar e va via.
Un¹altra madre grida tutto il suo dolore e dice: Lasciate crescere i nostri
figli. Lasciateli vivere e diventare grandi.
Questa notte non c¹è tregua. Le bombe continuano a cadere.
Non so se riuscirò a dormire questa notte.
Davanti a miei occhi vi è solo distruzione e morte.



 

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