Il colonialismo italiano

a cura di Matteo Dominioni




1. L'Italia dopo essere stata sconfitta nell'illusione coloniale non ha mai
fatto un'opera di autocoscienza per comprendere e condannare le azioni
militari in territorio extraeuropeo. La dimenticanza collettiva non ha
lasciato spazio ad alcun tipo di mea culpa e l'Impero è divenuto un esempio
citato più volte dai post-fascisti per assolvere parzialmente il regime
fascista del ventennio. La propaganda che impregnava la politica estera
fascista offuscò la conoscenza dei reali interessi che stavano alla base
delle conquiste. Anche i risultati potenzialmente ottenibili dalle conquiste
vennero ingigantiti. L'ignoranza posta allora dal regime permane presso la
maggior parte degli italiani. Molti potrebbero avere l'attenuante di non
essere stati presenti ai fatti e conseguentemente di non poter influenzare
la ricostruzione storica; altri hanno ben più gravi responsabilità perchè
hanno sempre taciuto, nonostante sapessero, in merito ai crimini di guerra
commessi dagli italiani in Libia, Etiopia, Somalia, Eritrea e Albania.
L'opinione pubblica in generale non ha mai espresso una condanna nei
confronti del colonialismo; in ambito privato gli italiani che vissero gli
anni del consenso continuarono a sentirsi fieri di quando Mussolini riempiva
le piazze per fare proclami di onnipotenza nascondendo però la realtà dello
scenario di guerra. Le nuove generazioni del dopoguerra hanno subito, allo
stesso modo dei nonni e dei padri, la propaganda fascista, perchè non avendo
avuto un'istruzione libera dal senso di grandezza dell'italica razza hanno
percepito i racconti dei "vecchi" e magari letto le scartoffie
propagandistiche di un tempo.
Se sia accaduto in cattiva o mala fede, rimane il fatto che la maggior parte
degli italiani ritiene il nostro colonialismo essere stato differente da
quello di altre potenze. La responsabilità di tale diffuso sentimento
assolutorio, che dipende dal non conoscere i fatti, spetta principalmente
alla lobby coloniale che ha mutilato parte degli archivi ed ha sempre posto
veti affichè non si parlasse di crimini. Rimane il fatto che il tempo passa
e che tali pressioni prima o poi sarebbero venute meno. La prima occasione
per affrontare il nostro passato coloniale, coinvolgendo una grossa fetta
dell'opinione pubblica, avvenne il 3 ottobre 1985. Nel corso di una
trasmissione televisiva furono nuovamente riproposte le accuse verso i
crimini di guerra fatti in Etiopia. L'ex ministro delle colonie Alessandro
Lessona tentò l'ennesima difesa che era inutile perchè ormai i documenti
iniziavano a saltare fuori [cfr. L'impero: un'avventura africana, programma
di Massimo Sani, con la consulenza storica di Angelo Del Boca e la regia di
Piero Berengo Gardin. Raiuno, 3 ottobre 1985. Citato in Angelo Del Boca,
L'Africa nella coscienza degli italiani, Bari, 1992..

2. A passare in rassegna le documentazioni e gli studi sul colonialismo ci
si accorge immediatamente che il grosso del materiale è quello coevo; questo
la dice lunga sullo stato degli studi. Si deve anche tenere conto che la
maggior parte del materiale pubblicato durante il fascismo e nel dopoguerra
appartiene alla memorialistica dei reduci e dei gerarchi oppure a
pubblicazioni periodiche di associazioni di reduci intrisi da revanche.
Negli ultimi venti anni si è affermata una vera e propria scuola in materia
di colonialismo che ha rotto con il passato portando alla luce i misfatti
compiuti dagli italiani. Il maggior contributo è senza dubbio Gli italiani
in Africa Orientale di Angelo Del Boca che offre ricche argomentazioni e
continue smentite ai luoghi comuni affermatisi. Nonostante l'impegno profuso
da Del Boca e da altri sia profondo, e sempre a sotegno della verità,
riteniamo che dare vita ad una apposita rubrica nell'Osservatorio Storico
sia un compito utile per innovare la ricerca e diffondere i materiali già a
disposizione.

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Il genocidio italiano in Cirenaica, 1930-1931[1]


di Matteo Dominioni






La conquista della Libia negli anni si dimostrò ben più difficile di quanto
si era propagandato. Anche durante gli avvenimenti bellici molte cose non si
vennero a sapere, soprattutto in patria, per via di un distacco, cercato ed
ottenuto nei fatti, tra il fronte e la patria. Tale distacco emerge
prepotentemente nel momento in cui il conflitto si tramutò da nazionale,
fatto da un esercito regolare di massa con gossi apparati per la creazione
dell'opinione pubblica, in coloniale, fatto da volontari, coloni e mezzi
militari più evoluti. Agli inizi del 1930 si stava ultimando, dopo un
ventennio di guerra, la conquista della parte occidentale della Libia, la
Tripolitania, mentre ad oriente, Cirenaica, era in atto uno scontro tra
fascisti e patrioti libici che durò più a lungo e fu più intenso negli
scontri.
In gennaio il generale Graziani, sulla scia della popolarità e degli agganci
seguiti alla conquista della Tripolitania, viene nominato vicegovernatore
della Cirenaica e insieme a Badoglio diventa uno dei personaggi chiave della
fase finale, quella risolutiva. Per farci un'idea del loro operato è
sufficiente ricordare, per ora, che il primo diede vita ai "tribunali
volanti" con diritto di morte per reati quali possesso di arma da fuoco o
pagamento di tributi ai ribelli; il secondo propose l'utilizzo di strumenti
terroristici, quali le bombe ad aggressivi chimici per stroncare la
resistenza libica[2].
Il fronte opposto era occupato dalla Senussia, organizzazione statuale dei
seminomadi di religione musulmana. Nata agli inizi dell'ottocento, si basava
su di numerose zauie, luoghi periferici del controllo politico, e allo
stesso tempo religioso, che regolavano l'attività dei commerci, del
pagamento delle decime e dell'attività amministrativa e giudiziaria in una
società di numerosi duar, accampamenti talvolta militarizzati, sparsi per
l'altopiano del Gebel.
I fascisti compresero che per rompere i legami organizzativi della
resistenza dovevano eliminare la Senussia come fattore di mantenimento
dell'ordine feudale. In un territorio come quello del Gebel però non era
accettata l'invasione di stranieri che poteva mettere a repentaglio il
delicato equilibrio ecologico, in relazione alla densità demografica, che si
era instaurato. L'altopiano presentava maggiori possibilità di coltivare e
allevare bestiame soprattutto per la presenza di piogge senz'altro maggiori
che nella parte occidentale del paese. Tale fertilità tuttavia veniva messa
in discussione dall'arrivo di nuove genti che non avevano minimamente
intenzione di mantenere il naturale ordine delle cose della natura ma di
colonizzare e portare un altro mondo fondato sul dominio e non sul rispetto
della natura.
L'invasione fu vista come annientamento delle proprie risorse e di
conseguenza della propria esistenza. Resistere significava tentare di
sopravvivere, farsi soggiogare era, agli occhi dei libici, come andare
incontro a un suicidio perchè avrebbe rotto il naturale rapporto di
equilibrio con la natura e con esso la vita stessa. Chiarendo tale
atteggiamento della maggioranza della popolazione locale, che non deve
essere colto solamente nell'omogeneità delle posizioni data la numerosa
eterogeneità delle culture di origine tribale, è possibile comprendere il
forte attaccamento per l'indipendenza che portò tutta la popolazione a
collaborare coi ribelli ed a pagare di persona.
Di fronte ai colonizzatori si presentava un problema di non poco conto: la
zona più ricca della Libia, la Cirenaica, era quella che presentava una
ribellione diffusa e difficile da sconfiggere perchè mimetizzata nel
territorio e soprattutto perchè godeva dell'appoggio della popolazione. Non
dev'essere trascurato il ruolo della dirigenza della resistenza che, grazie
soprattutto all'opera di Omar al-Mukhtar, fu in grado di impiegare un
efficiente sistema informativo e un veloce reclutamento delle forze.
I fascisti decisero un'azione radicale sulla collocazione geografica delle
etnie per mezzo di movimenti coatti di popolazione. A partire dal 25 giugno
1930 si decise per la creazione di campi di concentramento che dovevano
contenere le popolazioni del Gebel che avevano dato maggiore appoggio alla
resistenza. Furono immuni alla detenzione le popolazioni già sottomesse e
quelle stanziate al di fuori del Gebel. Lo scopo era quello di rompere ogni
legame tra ribelli e popolazione ma anche di rompere ogni possibilità di
autosussistenza delle comunità. Lo stesso Badoglio, cosciente di cosa stava
andando a fare, dice: "Non mi nascondo la portata e la gravità di questo
provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta
sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla
fino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della
Cirenaica"[3].
Quanti furono i deportati dal Gebel ai campi limitrofi alla costa? Giorgio
Rochat giunge ad una stima, per approssimazione, di 100/120.000 persone,
praticamente tutta la popolazione del Gebel. Tuttavia, anche operando in
modo così radicale, non si raggiunsero gli obiettivi prefissati cosicchè a
fine agosto fu deciso di muovere nuovamente i campi in zone costiere perchè
i legami tra Senussia e popolazione non erano venuti meno. Furono inasprite
le sanzioni verso i detenuti e irrigidite le norme riguardanti la
detenzione. All'interno dei campi vigevano condizioni precarie per la
mancanza di cibo e di risorse; ci furono epidemie di tifo a cui
difficilmente si riuscì a porre rimedio per l'assoluta mancanza medici - due
per 60.000 detenuti - e di strumenti basilari, anche semplici pentole, per
sterilizzare vesti e vettovagliamenti. Il disinteresse dei fascisti si
tramutò in una filantropia che si concretava nel trasmettere, forzatamente,
ai locali una sorta di etica del lavoro. Venivano negati i mezzi di
produzione (terra e bestiame) ma allo stesso tempo si ricercava di inserire
(sussumere) i locali in lavori di natura propriamente capitalistica.
La popolazione del Gebel, una volta rinchiusa, divenne versatile serbatoio
di forza lavoro a basso prezzo da inserire nelle innumerevoli opere
pubbliche (soprattutto strade) che andavano di pari passo coll'occupazione.
Ai lavoratori veniva dato un salario tre volte inferiore a quello degli
italiani che li metteva su di un piano di subordinazione ed allo stesso
tempo li privava gradatamente degli strumenti e delle conoscenze nei lavori
tradizionalmente sviluppati. Alle donne venivano dati telai e materie prime
da impiegare nella fattura di tappeti e tessuti. Lo scopo era inserire
gradatamente la popolazione entro un rapporto sociale legato al salario e
alla produzione per l'accumulazione e non per l'autoconsumo. Tuttavia tali
iniziative erano destinate a fallire, perchè i fascisti volevano ricreare in
maniera coatta comunità artificiali di autosussistenza, senza rendersi conto
che la precedente distruzione dell'autosussistenza formatasi attraverso
pratiche graduali socialmente e culturalmente accettate impediva poi di
ricreare mondi artificiali funzionanti in tale realtà perchè ad essa
estranei.

Fu imposto un vero e proprio modo di produzione altro. Se le popolazioni
erano in precedenza occupate nell'allevamento del bestiame e
nell'agricoltura, ora venivano impiegate nella costruzione di opere edili o
nella pesca. L'imperialismo italiano fu innanzi tutto esportazione di un
modo di produzione che andò a destrutturare i rapporti sociali precedenti.
Un altro modo per spezzare i legami tradizionali della società libica fu
l'eliminazione del 90-95% del bestiame tra gli anni 1930-1931. In una
società dedita alla pastorizia, oltre che all'agricoltura e al commercio,
venivano messi in discussione i requisiti minimi di approvvigionamento delle
popolazioni del Gebel. Un ultimo provvedimento fu infine utilizzato per fare
terra bruciata attorno ai ribelli di Omar al-Mukhtar: la proibizione del
commercio con l'Egitto, dove circa 20.000 libici che si erano rifugiati
erano certamente interessati a dare man forte ai patrioti. Più tardi, allo
scopo di porre fine al contrabbando che avveniva per mezzo di piccole
spedizioni su cammelli, i fascisti decisero di costruire un reticolato lungo
270 km lungo la direttrice Bardia-Giarabub. Dall'aprile a settembre 1931 fu
costruito tale recinto largo qualche metro e impenetrabile perchè
controllato per mezzo di fortini e voli aerei.
Una volta depredato il Gebel, per il lungo e per il largo, agli italiani non
restava altro che porre fine alla resistenza in un ambiente finalmente
immune, dove i rastrellamenti risultarono efficaci a tale scopo. I ribelli
non avevano più la possibilità di muoversi in maniera discreta ed era venuta
meno la precedente copertura delle popolazioni. Gli esploratori al servizio
degli italiani tallonavano i ribelli passando informazioni tempestive ai
comandi per un pronto intervento. L'accerchiamento dei ribelli veniva fatto
in maniera tale da presidiare eventuali vie di fuga. In caso di fuga
intervenivano l'aereonautica e la cavalleria per inseguire in maniera più
stringente il nemico.L'arresto di Omar al-Mukhtar avvenne nel settembre del
1931 e l'esecuzione della condanna a morte, già decisa in sede
extragiudiziaria, si tenne, secondo macrabo rito colonial-fascista, sulla
pubblica piazza. Il 9 dicembre si riunirono i rimanenti oppositori
all'occupazione e decisero per la resa. L'uccisione di Omar al-Mukhtar
apparve come l'episodio definitivo di una serie che aveva portato a un
veloce indebolimento della Senussia.
Una volta intacccate, come si è visto, le basilari strutture della
produzione, dei commerci e dell'amministrazione, la vittoria era totale .
Furono distrutti non solo i caratteri propriamente endogeni della società
senussita, ma anche quelli esogeni come il rapporto tra densità
demografica-popolazione. E totale fu anche il dominio, che fu subito da
tutta la popolazione nonostante i ribelli in armi fossero tra i 600 e gli
800, con variazioni a seconda del dor che veniva coinvolto negli scontri.
Risulta enorme la sproporzione nel perseguire i ribelli e i loro
fiancheggiatori: i secondi pagarono molto di più, primo perchè erano
marginalmente coinvolti nelle battaglie, secondo perchè perirono in maggior
numero. Si tenga conto del fatto che l'amnistia per i ribelli entrò in
vigore prima della chiusura dei campi che andarono in contro a tale sorte
proprio a causa della contraddizione per cui non si potevano perseguire le
popolazioni anziché i diretti responsabili dei fatti.
Secondo fonti italiane i morti tra i ribelli per il periodo 1923-1931
sarebbero stati 6.500 ma c'è un vizio di forma in tali dati, che sono presi
da materiale di parte. Altri sono i numeri macabri che emergono tenendo
conto dell'esistenza dei campi, delle malattie, dei trasferimenti e
dell'impoverimento arrecato alle popolazioni. Prendendo in considerazione
valutazioni e censimenti della popolazione, effettuati prima e dopo la
guerra dalle autorità coloniali, si ha la conferma di una impressionante
diminuzione demografica nella Cirenaica. Da dati del 1928 gli abitanti
sarebbero stati 225.000, mentre dal censimento del 1931 risulterebbero
essere 142.000 compresi gli italiani e i nuovi immigrati. Tenendo conto di
quanti fuggirono dal Gebel verso l'Egitto (10-15.000 persone) e del tasso di
incremento demografico, il genocidio fascista dovuto alla repressione
sarebbe di circa 45-50.000 persone che crescono fino a 70.000 se ai dati
italiani si sostituiscono quelli dell'antropologo Evans-Pritchard[4] .
"Questo non è l'unico genocidio della storia delle conquiste coloniali, se
ciò può consolare qualcuno, ma è certo uno dei più radicali, rapidi e meglio
travisati dalla propaganda e dalla censura"[5].
Una volta che la ribellione fu vinta le popolazioni non poterono tornare nei
luoghi d'origine sul Gebel che erano destinati, essendo le zone più fertili,
agli italiani. I libici subirono così la radicale modifica dei principali
aspetti della vita materiale e non solo: in quanto seminomadi furono
rinchiusi in riserve, dove essere sfruttati come manodopera semplice.


[1] I documenti citati sono presi dal volume di Giorgio Rochat, Guerre
italiane in Libia e in Etiopia, Treviso, 19??. Per la ricostruzione dei
fatti sono stati utilizzati i seguenti volumi dello stesso autore: Il
colonialismo italiano, Torino 1973; con Piero Pieri, Pietro Badoglio,
Torino, 1974. Sempre di Giorgio Rochat, La repressione della resistenza
araba in Cirenaica nel 1930-31 nei documenti dell'archivio Graziani, in "Il
movimento di Liberazione in Italia", 1973, n.110, pp. 3-39. Tale articolo
provocò la reazione di Enrico De Leone che scrisse Il genocidio delle genti
cirenaiche secondo G. Rochat (in "Intervento", 1979, nn. 38-39, pp.12)
andando nuovamente a riproporre un'autoassoluzione improponibile. In
"Belfagor" (1980, n. 4, pp. 449-455) Rochat risponde accusando i
colonialisti di fare "falsificazioni e diffamazioni personali" e di essere
legati "ai temi e miti del passato", l'accusa di fare cattiva storia include
pure Renzo De Felice che "tace sulle operazioni di riconquista e
pacificazione della Libia (...) e sulle responsabilità personali del
dittatore".In linea di massima quanto enunciato da Rochat è stato
confrontato con quanto riporta il maggiore conoscitore della società
senussita Edwards E. Evans-Pritchard, Colonialismo e resistenza religiosa
nell'Africa settentrionale. I Sanussi della Cirenaica, Catania, 1978 e con
un altro lavoro di Erica Salerno, Genocidio in Libia, Milano, 1979. Per
concludere si segnala il testo di Rodolfo Graziani, Cirenaica pacificata,
Milano, 1932 in cui è ammessa dall'autore, e rivendicata l'esistenza dei
campi di concentramento. Non sorprenda nessuno che tale ammissione di colpe
sia passata inosservata perchè tale è stato l'atteggiamento di sempre
dell'Italia verso le ex-colonie.

[2] Badoglio al vicegovernatore Siciliani, 10 gennaio 1930: "Continui
rastrellamenti e vedrà che salterà fuori ancora qualcosa. Si ricordi che per
Omar al-Mukhtar occorrono due cose: primo, ottimo servizio di informazioni;
secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe iprite. Spero che dette
bombe le saranno mandate al più presto."

[3] Badoglio a Graziani, 20 giugno 1930.

[4] La storiografia coloniale ha ritenuto il censimento del 1931
inattendibile rifiutando così l'evidenza di numeri che non possono essere
che sommari ma senz'altro sono poco edificanti per il passato coloniale
fascista.

[5] Giorgio Rochat e Giulio Massobrio, Breve storia dell'esercito italiano
dal 1861 al 1943, Torino, 1978.

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La memoria storica che manca agli italiani

Antonio Moscato






7 aprile 1939: l'Italia invade l'Albania

Dal protettorato italiano alla conquista dell'Albania

All'alba del 7 aprile 1939 l'esercito dell'Italia fascista sbarcò a Durazzo,
Valona, San Giovanni di Medua (Shëngjin) e Saranda, che gli italiani
chiamavano Santi Quaranta e poi ribattezzarono Porto Edda (in onore della
figlia del "Duce" e moglie del ministro degli esteri Galeazzo Ciano, l'uomo
che aveva voluto più di ogni altro la conquista dello sventurato paese). La
conquista fu quasi incruenta per molte ragioni: in oltre vent'anni di
protettorato l'Italia aveva addestrato e inquadrato il misero esercito
albanese, che si squagliò quindi subito come neve al sole; la penetrazione
economica e culturale aveva avuto pochi effetti sullo sviluppo del paese, ma
aveva permesso di stabilire legami interessati con diversi capi clan della
Mirdizia e dei Dukagini, che avevano conti in sospeso con re Zog.

Le perdite italiane per il momento furono modestissime: secondo le cifre
ufficiali 11 morti e 42 feriti a Durazzo, un morto e 10 feriti a Saranda.
Oltre al disorientamento delle truppe per la precipitosa fuga del re Zog,
che appena capita l'antifona era partito in direzione della Grecia con un
corteo di auto e di ambulanze e parte delle risorse auree del paese, pesò
l'assoluta mancanza di aerei e di batterie antiaeree (sempre grazie ai
suggerimenti dei consiglieri militari italiani), mentre l'Italia appoggiò lo
sbarco con ben 384 aerei, che anche allora venivano presentati sulla stampa
come "apportatori di pace e di sicurezza". Ma le perdite evitate allora
sarebbero venute dopo.

Una testimonianza preziosa: il Diario di Ciano

Già pochi giorni dopo l'occupazione Ciano notava sul suo Diario (13 aprile)
che "la cosa è andata finora liscia come l'olio perché non abbiamo dovuto
ricorrere alla forza, ma se domani dovessimo cominciare a sparare sulla
folla, l'opinione pubblica si commuoverebbe di nuovo". Tuttavia nei giorni
precedenti aveva notato non pochi problemi: "difficoltà negli sbarchi,
carburanti non adatti, ed infine difficoltà di collegamenti perché i
radio-telegrafisti richiamati non sono stati né sono in grado di assicurare
il servizio". Sono problemi che si riscontreranno in tutte le "guerre del
Duce" e che costeranno la vita a tanti soldati italiani.

Il 15 aprile egli osserva che tra i notabili albanesi portati a Roma per
ratificare il nuovo stato di cose, e che pure sono da tempo al soldo degli
italiani, qualcuno "ha l'aria depressa. Il Duce li riceve a Palazzo Venezia
e parla. Vedo che attendono con ansia la parola indipendenza, ma questa
parola non viene e ne sono rattristati." Erano evidentemente stati ingannati
sullo scopo dell'operazione italiana, che credevano servisse solo a
rovesciare il tirannico re Zog, e invece aveva ben altri obiettivi. Il
giorno successivo Ciano nota lo stupore di "questa gente dura, montanara,
guerriera" nei confronti di Vittorio Emanuele III, quel "piccolo omino
seduto su una grande sedia dorata" che risponde "con voce incerta e
tremante" al discorso del rappresentante albanese Shevket Verlaci, che a sua
volta ha letto "con stanchezza e senza convinzione le parole che deve dire
per offrire la corona".

Il 12 maggio Ciano comincia a preoccuparsi dell'opposizione latente negli
ambienti intellettuali albanesi e pensa di risolverla ricorrendo al confino
per una ventina di essi. Ma già il 16 gennaio 1941 i carabinieri consegnano
al Duce un "rapporto allarmante sull'Albania". Il Duce ci crede e Ciano non
troppo, ma il 30 gennaio annota che nella sola Corcia (Korcë o, alla greca,
Koriza) la quasi totalità degli studenti e dei professori hanno creato
disordini, e per "colpire gli irriducibili" propone nuovamente il confino in
un isola tirrenica, ma questa volta per due o trecento persone...(in una
città di 24 abitanti). Sono i primi accenni di quel che accadrà
successivamente.

La tragedia vera avverrà a partire dal 28 ottobre dello stesso anno, con
l'invasione della Grecia. Dopo giorni di stupido entusiasmo cominciano i
primi segni di inquietudine, puntualmente registrati dal solito meticoloso
Ciano, che nei primi giorni li attribuiva al maltempo (contribuiva anche
quello, ma non era la causa principale). Il 1deg. novembre salutava con
gioia l'arrivo del sole: "ne approfitto per fare su Salonicco un
bombardamento coi fiocchi". Ma un po' di inquietudine affiora, perché il suo
aereo è stato "attaccato dalla caccia greca". Se l'è cavata ma confessa a sé
stesso (il Diario non era destinato alla pubblicazione) che è stata "una
gran brutta sensazione". E il peggio deve venire. Il 6 novembre c'è stato un
attacco greco su Corcia, che "non ha avuto i risultati che millantano le
radio inglesi, ma c'è stato, qualche progresso il nemico lo ha fatto, ed è
una realtà che all'ottavo giorno di operazioni l'iniziativa è agli altri."
Il giorno dopo Ciano ammette che a Corcia c'è stato un "collasso", che
attribuisce a un battaglione albanese che "per paura - non sembra per
tradimento - cominciò a fuggire". Da allora in poi il Diario abbandona i
toni ottimistici. E' cominciata la catastrofe, che costringerà Hitler a
modificare i suoi piani e a invadere la Grecia (e quindi la Jugoslavia) per
riparare i guasti provocati dall'impreparazione e alla scarsa motivazione
dell'esercito fascista.

La guerra si è spostata già da novembre sul territorio albanese, grazie
all'eroismo del popolo della Grecia, più che del suo esercito male armato e
pessimamente organizzato. Bene per la Grecia, male per gli albanesi, ormai
tragicamente coinvolti in una guerra che non avevano mai voluto. Pagano il
prezzo per l'incoscienza dei loro dirigenti, che hanno creduto di ottenere
l'appoggio dell'Italia per le loro contese interne, e si sono trovati
sottomessi e privati di quella sovranità a cui tenevano molto. Peccato che
quell'esperienza sia stata dimenticata da altri albanesi di oggi, quella
parte dei dirigenti dell'UCK che hanno accettato gli accordi di Rambouillet,
fornendo l'esca per fare scattare l'impresa "umanitaria" della NATO,
nell'illusione di ottenere un appoggio per le loro aspirazioni
all'indipendenza.

L'antefatto: le relazioni italo-albanesi tra il 1912 e il 1939

L'invasione dell'Albania, da un lato, non era apparsa molto preoccupante per
le altre potenze interessate ai Balcani (era un paese già completamente
inserito nell'orbita italiana, e il mutamento istituzionale non modificava
ancora gli equilibri complessivi dell'area), dall'altro era insensata,
inutile e costosa. Ma costosa era stata anche la politica di penetrazione
"pacifica" dei decenni precedenti. Intanto fu solo relativamente "pacifica",
perché in realtà i tentativi di trasformare il protettorato de facto
(riconosciuto dalle altre potenze, ma mai formalizzato di fronte agli
orgogliosissimi albanesi) in una vera annessione, erano stati tutti
fallimentari, e avevano comportato numerose imprese militari.

L'Italia tra il 1914 e il 1915 aveva contrattato il suo passaggio dalla
neutralità (che rappresentava già uno sganciamento dalla "Triplice alleanza"
con Germania e Impero austro-ungarico) all'entrata in guerra a fianco
dell'Intesa ottenendo con il Patto di Londra (rimasto segreto fino alla
pubblicazione da parte dei bolscevichi - dopo la rivoluzione d'Ottobre - di
tutti i trattati e gli accordi depositati negli archivi del governo zarista)
la promessa di consistenti acquisizioni territoriali in Dalmazia, nella
fascia di Adalia in Turchia e in Albania. In particolare era stata promessa
all'Italia la baia di Valona, che fu effettivamente occupata al termine
della guerra, ma a cui si dovette rinunciare in seguito all'insurrezione
della popolazione di quella città il 2 aprile 1920. Il mito della "vittoria
mutilata" che alimentò la propaganda fascista nacque da quelle rinunce
forzate, determinate dalla vigorosa crescita del nazionalismo albanese,
jugoslavo e turco.

L'unica acquisizione di una parte dei territori promessi nel Patto di Londra
fu (a parte Trento, e Trieste, che sarebbero state però ottenute lo stesso
anche in caso di neutralità) fu quella del territorio allora integralmente
tedesco del Sud Tirolo, dell'Istria, di Fiume (conquistata col colpo di mano
di D'Annunzio) e l'isolotto deserto di Saseno, strategicamente importante
dato che controlla l'accesso alla baia di Valona.

Fallito il tentativo di occupare Valona ed altre parti dell'Albania,
l'Italia si accontentò quindi di puntare a un controllo indiretto del paese,
assumendosi una serie di compiti di "consulenza tecnica", compresa quella
assai delicata della definizione degli incerti confini del nuovo Stato, che
comportò in diverse occasioni alcuni incidenti, in cui nel 1923 rimase
ucciso il gen. Tellini, capo della Commissione incaricata della ricognizione
topografica. Anche nel 1935 il generale De Ghilardi, ispettore italiano
dell'esercito albanese, rimase ucciso a Fier in una sollevazione
nazionalista.

Le aspirazioni dell'imperialismo italiano sull'Albania d'altra parte non
erano nate col fascismo, né ad essa era estranea la casa regnante, come si è
detto a torto recentemente. È vero che alla vigilia della conquista del 1939
Vittorio Emanuele aveva manifestato qualche dubbio, che era però legato a
considerazioni tattiche contingenti e non certo a divergenze di fondo con
Mussolini. Lo sapevano bene gli albanesi, tanto è vero che monsignor Bumçi,
il vescovo cattolico che guidava la delegazione albanese a Versailles, nel
tentativo di respingere una spartizione o un vero e proprio protettorato,
aveva già allora avanzato l'ipotesi che alla testa dello Stato indipendente
albanese potesse essere collocato come re un principe di casa Savoia.

La politica di penetrazione economica e di corruzione di dirigenti locali,
iniziata almeno dieci anni prima dell'avvento del fascismo dai governi
liberali, continuò fino al 1938 sulle stesse linee, anche se senza maggiori
successi. Roberto Morozzo Della Rocca, uno degli studiosi più attenti della
storia delle relazioni italo-albanesi (con particolare attenzione
all'utilizzazione politica del fattore religioso) ha scritto che "le
concessioni economiche e la rete di interessi creata dagli italiani in
Albania non si traducevano in un parallelo e proporzionale aumento di
influenza politica e in un controllo strategico". Al contrario, "era lo
stesso aspetto meramente finanziario a costituire un insuccesso per
l'Italia", dato che si svolse in perdita netta per il nostro paese, al punto
che non rimase che tentare l'avventura dell'annessione.

Un anno prima della conquista militare il console italiano a Tirana
lamentava che la situazione dei lavoratori italiani (a parte alcuni
specializzati "addetti al Comando della difesa nazionale" ) era piuttosto
triste: essendo "quasi tutti mediocri lavoratori" non erano molto ricercati.
"Chiedono paghe che, mentre sono fantastiche in paragone di quelle delle
quali si contentano gli albanesi, sono insufficienti per loro" e quindi
finiscoo per lavorare solo saltuariamente. L'unica eccezione è la richiesta
"di cameriere giovani per locali pubblici e per privati", considerata
tuttavia inopportuna dal console "per ragioni di decoro e di prestigio,
essendo questa terra in genere fatale alle nostre lavoratrici giovani.
Presto o tardi esse trovano un protettore straniero e finiscono per
disabituarsi al lavoro onesto". E pensare che c'è oggi chi considera
"predisposte alla prostituzione" le ragazze albanesi!

Dopo l'occupazione il numero degli italiani occupati crebbe vertiginosamente
(da 1200 a 70.000 durante la guerra di Grecia, esclusi i militari
ovviamente), come crebbe anche l'apparato statale albanese (da 6.000 a
18.000), senza per questo diventare più efficiente e meno corrotto, ed anzi
finendo per essere occasione di illeciti arricchimenti di una torma di
profittatori, intermediari, capitalisti "magliari" e tenutari di case chiuse
(in cui arrivavano direttamente, con grande scorno del regime, soprattutto
"signorine" italiane).

Il finanziamento della Chiesa cattolica (nettamente minoritaria) era stato
costosissimo, ma non l'aveva trasformata in una docile pedina della
penetrazione italiana. Di fatto, come hanno osservato vari studiosi, la vera
religione dell'Albania non è né quella islamica né quella ortodossa o quella
cattolica, ma l'albanità. La stessa osservazione è stata fatta
successivamente, anche a proposito dello stesso "marxismo-leninismo" di
Henver Hoxha, dall'ex ambasciatore a Tirana, Gian Paolo Tozzoli, che ha
curato una efficace ricostruzione del regime "comunista" nella guida Albania
pubblicata nel 1992 dalla CLUEP di Milano.

Che quei finanziamenti fossero soldi buttati via emerse chiaramente anche
dopo la conquista, quando la Chiesa cattolica scoprì di non essere veramente
privilegiata, dato che ingenti contributi, proporzionali al numero di fedeli
e quindi ben più consistenti, venivano dati anche alle comunità ortodossa e
islamica, peraltro senza effetti risolutivi. Così anche l'occupazione si
concluse da tutti i punti di vista con un pugno di mosche, come tutte le
altre "conquiste" dell'Italia imperiale.

L'invasione e l'occupazione della Jugoslavia (1941-1943)

6 aprile 1941: Belgrado distrutta dai bombardamenti

All'alba della domenica delle palme, il 6 aprile 1941 uno spaventoso
bombardamento tedesco distrugge gran parte della città di Belgrado.
Sperimentata prima a Guernica, poi a Varsavia, viene applicata quella
tecnica della distruzione sistematica di tutte le infrastrutture civili
oltre che militari che caratterizzerà poi tutta la Seconda Guerra Mondiale,
e che culminerà nella distruzione di Dresda, Hiroshima e Nagasaki. Per tutti
gli jugoslavi un trauma indelebile, riecheggiato nel bellissimo film di Emir
Kusturica, Underground.

Nel corso dei bombardamenti furono distrutti antichi monumenti artistici, e
la Biblioteca nazionale con tutti i suoi tesori. I bombardamenti colpirono
anche altre città come Skopije, Cetinjie, Niö. La cifra delle vittime è
controversa, per l'interesse convergente dei massacratori ma anche delle
autorità del paese aggredito che, per ragioni diverse, omettono il bilancio
reale (nel caso dell'esercito jugoslavo si trattava di nascondere la propria
impreparazione); tuttavia, secondo Sthephen Clissold, sarebbero state
20.000, e in gran parte civili. Tra i morti, ironia della storia, uno dei
più filofascisti del governo guidato dal generale Duöan Simovic, lo sloveno
Frane Kulovec, che appena il giorno prima aveva presentato a Hitler -
tramite l'ambasciata slovacca - la proposta di creare una Slovenia
"indipendente" sotto la protezione tedesca.

Il capo del governo, Simovic, era assente dalla capitale per assistere al
matrimonio della figlia. Ma naturalmente questo particolare è solo la
conferma di un atteggiamento suicida, che portò a evitare ogni
mobilitazione, sperando di non irritare le potenze dell'Asse, a cui venivano
ripetute incessantemente dichiarazioni di buona volontà. L'interruzione di
ogni comunicazione telefonica e radiofonica impedì poi a Simovic e allo
Stato Maggiore di impartire ordini alle truppe, che rimasero disorientate e
sbandate come quelle italiane dopo l'8 settembre del 1943. Peraltro, anche
se li avessero dati, si poteva dubitare dei risultati, dato il basso livello
dei quadri superiori dell'esercito: l'attaché militare francese, che aveva
assistito alle manovre del 1937, aveva scritto nel suo rapporto che non era
suo compito convincere i vertici militari jugoslavi della loro incapacità e
suggerir loro di fare harakiri...

Non si trattava certo di un'inferiorità intrinseca degli jugoslavi - che
daranno negli anni successivi una splendida dimostrazione delle loro
capacità combattive, impegnando ben trenta divisioni tedesche - ma
dell'organizzazione basata sul predominio arrogante dei serbi, che avevano
escluso a lungo croati e sloveni dagli alti gradi, generando al tempo
stessofrustrazioni, tensioni interetniche e una selezione non basata sul
criterio delle effettive capacità.

Inoltre il piano militare tedesco era stato ben congegnato: l'invasione era
cominciata da più parti: truppe tedesche erano entrate dalla Romania e dalla
Bulgaria, ed erano state spalleggiate dall'esercito bulgaro, a cui era stato
promesso un cospicuo bottino. Contemporaneamente l'esercito italiano entrava
in Jugoslavia dall'Istria e dall'Albania, e poco dopo si sarebbero aggiunte
anche forze ungheresi a cui era stata concessa l'occupazione della
Vojvodina, dove esisteva una cospicua minoranza magiara.

L'antefatto

L'invasione della Jugoslavia non rientrava nei precedenti piani di Hitler.
Probabilmente questi condivideva il giudizio di Bismarck, che aveva detto
che quella terra non valeva le ossa di un solo granatiere di Pomerania. La
Germania, d'altra parte, come l'Italia, preferiva puntare a un controllo
indiretto dei Balcani attraverso l'alleanza con governi conservatori, anche
utilizzando gli storici legami dell'Austria nell'area balcanica. In questo
la Germania era entrata più volte in concorrenza e quasi in conflitto con
l'Italia, che mirava allo stesso obiettivo e che, in particolare al momento
del primo tentativo di annessione dell'Austria nel 1934, aveva puntato a un
polo con Ungheria, Jugoslavia, Romania e Bulgaria (più l'Albania
semivassalla) per contrastare l'espansionismo germanico. Tuttavia
l'incoerenza della politica estera fascista aveva reso debole questo
progetto, in particolare per quanto riguarda la Jugoslavia, preoccupata per
l'appoggio dato dal governo di Roma al gruppo fascista croato di Ante
Pavelic, ma anche ad altri uomini politici croati. Per attenuare le
diffidenze, ovviamente accresciutesi dopo l'assassinio di re Aleksandar da
parte degli ustaöa avvenuto a Marsiglia il 9 ottobre 1934, alcuni capi del
gruppo fascista croato furono confinati a Lipari per qualche tempo. Ma le
ambizioni mussoliniane erano tanto manifeste che un vero riavvicinamento con
Belgrado non fu possibile. Inoltre, la penetrazione economica della Germania
in Jugoslavia era nettamente superiore a quella italiana.

La crisi che doveva portare la Jugoslavia ad allontanarsi dalla Germania e
dall'Italia, ormai non più antagoniste dopo la guerra di Etiopia e le
sanzioni della Società delle Nazioni, fu la conquista dell'Albania.
Concepita come rivincita sulla conquista della Cecoslovacchia da parte di
Hitler, l'operazione non fece alcun effetto a livello internazionale, dato
che l'Albania fin dal 1912 era di fatto un protettorato italiano. Ma allarmò
il governo jugoslavo, preoccupato dalle aspirazioni italiane sul Kosovo. Nel
febbraio 1939 era caduto il governo Stojadinovic, che due anni prima aveva
firmato un trattato con l'Italia. Il successivo governo di Dragiöa Cvetovic
cercò - tardivamente - di attenuare le tensioni con i croati creando accanto
alle banovine (province autonome) serba e slovena una banovina di Croazia, e
poi altre due in Bosnia-Erzegovina e nella Vojvodina. Ma lo Sporazum
(accordo) del 26 novembre 1939 non fu mai attuato, soprattutto per quanto
riguarda l'inserimento nei comandi dell'esercito di rappresentanti croati.


Le molte responsabilità dell'Italia

Le responsabilità dell'Italia nella crisi balcanica non sono solo quelle
delle maldestre e contraddittorie ingerenze nella politica interna
jugoslava, o dell'irresponsabile avallo alle tendenze secessioniste croate e
kosovare.

Fu la guerra di Grecia a provocare la catastrofe. Iniziata per velleità di
grandezza imperiale e per gelosia infantile nei confronti della vittoria
tedesca in Francia, soprattutto se comparata alla miserabile riuscita della
proditoria e maramaldesca aggressione italiana a una Francia già piegata, fu
avviata il 28 ottobre 1940, l'anniversario della marcia su Roma, che
coincideva tuttavia con l'inizio del maltempo autunnale. In poche settimane
l'Italia fu ributtata indietro dall'esercito greco, pessimamente armato, ma
fortemente motivato e sostenuto da uno sforzo eroico della popolazione
civile, che trasportava a spalle i mortai e le munizioni sulle più impervie
zone di montagna. La guerra si spostò fin dentro l'Albania, con gravissime
conseguenze sulla popolazione locale, che gli italiani non dovrebbero mai
dimenticare.

L'orientamento filofascista del governo greco del dittatore Metaxas (morto
il 29 gennaio 1941), che aveva lasciato sguarnite le frontiere con l'Albania
per illusioni sulle intenzioni dell'Italia fascista, fu abbandonato
rapidamente dal nuovo governo Koridzis, che chiedeva e otteneva aiuto dalla
Gran Bretagna.

Hitler reagì in modo furibondo, tanto più che Mussolini gli aveva tenuto
nascosto il suo insensato progetto, di cui lo informò solo a cose fatte
nell'incontro di Firenze avvenuto proprio il 28 ottobre 1940. Il maresciallo
Keitel attribuì appunto alla guerra di Grecia l'inizio della fine del "Reich
millenario". Al processo di Norimberga dichiarò lapidariamente: "arrivammo
[a Firenze] con tre ore di ritardo e ciò fu la catastrofe". Aveva
sostanzialmente ragione: l'avventurismo di Mussolini aveva consentito la
costituzione di una testa di ponte inglese nei Balcani, particolarmente
pericolosa per l'invasione dell'URSS, già decisa e tenuta a lungo nascosta a
Mussolini per ricambiarlo della stessa moneta.

Come è noto, Hitler iniziò immediatamente la preparazione di un'occupazione
della Grecia, che comportava tuttavia il passaggio per la Jugoslavia.
Energiche pressioni in tal senso furono fatte sul reggente Pavle di
Jugoslavia, mentre con la massima segretezza grandi forze tedesche entravano
in Bulgaria. Nel corso di marzo il reggente Pavle e Cvetkovic cominciarono a
cedere, mentre aumentava la protesta popolare. Il 21 marzo si dimisero tre
ministri contrari all'adesione della Jugoslavia all'Asse, ma il 25 dello
stesso mese Cvetkovic firmava a Vienna l'adesione al Patto tripartito,
troncando definitivamente con la Gran Bretagna, ma anche con il suo popolo.
Imponenti manifestazioni spontanee protestavano contro la capitolazione del
governo e del reggente a Niö, a Spalato, a Leskovac, a Kragujevac, a
Cetinje, a Skopje, a Lubiana. Al loro interno ricompariva con molta forza il
Partito comunista, che era stato messo fuori legge vent'anni prima.

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo un colpo di Stato militare antitedesco
diretto da ufficiali di aviazione filobritannici, tra cui Borivoje Mirkovic
e Duöan Simovic, che assumeva la guida del governo, rovesciò il governo
Cvetkovic e spedì il reggente in esilio in Kenia, dichiarando maggiorenne
Petar Karadjorjevic (a cui mancavano in realtà diversi mesi per la maggiore
età), che fu quindi proclamato re.

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(http://www.intermarx.com/ossto/moscato2.html)



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