I NUMERI DELLA RISTRUTTURAZIONE
Nel 1971 si svolse il Forum Mondiale dell'Ecologia e dell'Ambiente organizzato
dall'USAEC (Commissione per l'Energia Atomica degli USA) per sponsorizzare la
diffusione dell'energia nucleare quale fonte "alternativa" al petrolio.
La relazione introduttiva (Man's conquest of energy) fu tenuta da M.K. Hubbert
considerato all'epoca fra i massimi esperti delle questioni energetiche oltre
che avversario dei petrolieri. Fra i dati salienti di questa relazione spiccava
quello relativo alle riserve accertate di petrolio nel mondo che ammontavano
(nel 1971) a 260 miliardi di tonnellate (1900 miliardi di barili); questa cifra
non fu mai smentita.
Nei trenta anni successivi (1971-2001) il mondo ha consumato circa 82 miliardi
di tonnellate che sommate alle riserve accertate a fine 2001, pari a 143
miliardi di tonnellate, fanno 225 miliardi: rispetto ai valori del 1971 mancano
35 miliardi di tonnellate (256 miliardi di barili), l'equivalente di 10 anni di
consumi mondiali ai livelli attuali.
Che fine hanno fatto?
Pur considerando sovrastimati i valori del 1971, è difficile credere ad un
errore così grossolano tanto più che nel 1981 il valore delle riserve accertate
venne portato a 92,6 miliardi di tonnellate (-65% rispetto al 1971!) per poi
schizzare a 136, 5 miliardi di tonnellate nel 1991 (+45% rispetto al '81).
Inoltre, considerato che tra il '91 e il 2001 il consumo mondiale è stato di
33,3 miliardi di tonnellate (pari al 25% delle riserve accertate nel '91) e che
le riserve accertate sono aumentate solo del 4,9%, non si capisce come a fine
2001 le riserve accertate siano pari a 143 miliardi di barili!
Nello stesso periodo mentre le riserve di Europa ed USA si riducevano del 40%,
quelle del medio oriente quasi raddoppiavano a testimonianza del fatto che la
questione non è tecnica, ma politico-economica: nei periodi di forte crisi (anni
'70) il petrolio scarseggia addirittura lo si fa diminuire di quantità, ma
salire di prezzo. Poi negli anni '80 si scoprono riserve enormi (molte erano già
conosciute, ma tenute nascoste) ed ora probabilmente siamo in una fase di
scarsità pilotata per imporre un ciclo di ristrutturazione che abbiamo chiamato
"pesante" e che fa perno sulle fonti energetiche. E allora vediamo quali sono
gli indicatori principali di questo scenario al 2020 che vede come protagonista
principale gli Stati Uniti d'America.
In primo luogo c'è la tendenza al rialzo del prezzo del petrolio che nel 2020
dovrebbe toccare i 33 dollari al barile in moneta 2001 che vuol dire 38 dollari
in termini reali. Il gas dovrebbe seguire questo andamento, ma con rialzi minori
rispetto al petrolio, mentre il prezzo del carbone dovrebbe rimanere costante se
non addirittura calare. Ciò comporterà forti investimenti nei settori energetici
(nuove tecnologie e infrastrutture) e negli usi finali dell'energia nei processi
produttivi (energy saving o risparmio).
In particolare gli USA prevedono che la metà delle loro importazioni di petrolio
nel 2020 verrà dai paesi OPEC, ma la loro capacità di raffinazione aumenterà di
pochissimo, a fronte di un aumento del 64% della capacità di raffinazione
mondiale (principalmente in Estremo Oriente). Ciò vuol dire che gli USA
importeranno più prodotti finiti (in particolare quelli leggeri e intermedi)
ristrutturando l'industria di raffinazione verso il recupero dei residui pesanti
e le tecniche di abbattimento di zolfo e piombo. Due le conseguenze immediate
per gli USA: certezza e quindi controllo (anche militare) degli
approvvigionamenti e quindi ridimensionamento dell'Opec; mano libera rispetto ai
limiti imposti dal protocollo di Kioto.
Parallelamente è previsto negli USA un forte aumento delle importazioni di gas:
dal Canada dovrebbe arrivare il 15% di tutto il gas consumato, mentre un altro
6% dovrebbe essere fornito da GNL (Gas Naturale Liquefatto). Qui ci sono due
progetti faraonici, uno nel Pacifico e uno nell'Atlantico: dalla Bolivia con un
gasdotto fino al Cile, poi con navi metaniere fino in bassa California dove sarà
costruito l'impianto di rigassificazione. Il lato Atlantico sarà alimentato
dalla Nigeria e da Trinidad con impianto di rigassificazione nel golfo del
Messico. Totale degli investimenti circa 25 Miliardi di dollari. E' pensabile
che Bolivia e Nigeria non siano "influenzate" dalla politica USA?
Sul piano dell'impiego delle fonti di energia significa: riammodernamento del
settore elettrico con largo impiego di gas e di carbone. Quest'ultimo, scartato
dall'economia europea in virtù dei vincoli del protocollo di Kioto, trova negli
USA un forte sviluppo con i programmi Vision 21 e le tecnologie CCT (Clean Coal
Technology - tecnologia del carbone pulito). Si tratta di progetti modulari di
cogenerazione ed integrazione energetica che sfruttano carbone o residui pesanti
della raffinazione (TAR) che invece di essere bruciati vengono gassificati: si
ottiene calore di processo, elettricità e idrogeno. Nei prossimi dieci anni sono
previsti investimenti per 30 miliardi di dollari con la partecipazione del DOE
(Dipartimento Energia del Governo), della Exxon, Texaco; General Electric, Union
Carbide.
Sul piano del risparmio si prevede una riduzione del 26% dell'intensità
energetica, cioè dell'energia consumata per unità di prodotto, che fa perno su
soluzioni modulari e integrate per tutto ciò che riguarda l'alimentazione e la
propulsione dei processi produttivi. Soluzioni ibride gas/etanolo/elettricità e
particolarmente idrogeno nelle diverse varianti di fuel cell (celle di
combustibile).
Anche nel settore delle fuel-cell lo sforzo del DOE è ingente e ad ampio raggio
come nella generazione di elettricità: negli USA ci sono oltre 40 impianti
commerciali in funzione, l'ultimo dei quali da 250 kwatt inaugurato a marzo
nella città di Los Angeles. Il costo attuale di questi impianti è già oggi di
1200$/kwatt, paragonabile a quello di un impianto a carbone di grosse dimensioni
con il vantaggio di essere frazionabile, di avere un rendimento del 60% e con
basse emissioni. Per il 2015 il governo e le industrie USA prevedono di
abbattere i costi a 400$/kwatt cioè uguali a quelle di un ciclo combinato a gas
ma con un rendimento assai più elevato e pari al 75%. A fianco c'è tutto lo
scenario dell'automobile a idrogeno, passando anche qui per una serie di ibridi
che sono in via di sperimentazione, che vede impegnate tutte le grandi case
automobilistiche oltre che le società detentrici dei brevetti fuel cell, la
solita General Electric e alcune compagnie petrolifere, da sol
e o riunite nel SECA (Solid State Energy Conversion Alliance) a cui partecipa
anche il Governo attraverso il DOE e a cui Bush ha assegnato 1, 2 miliardi di
dollari per finanziare le ricerche.
Sarà tutto vero e tutto realizzabile? Al di là delle valutazioni scientifiche o
ingegneristiche, si conferma la natura energivora del modo di produzione
capitalistico che riesce a indirizzare i consumi, ma non a diminuirli, che pur
di non farci rinunciare all'automobile, sostituisce la benzina con l'idrogeno.
Costi quel che costi (e il conto sarà salato!), questa è la ristrutturazione che
il capitale intende operare, questa è la sfida USA all'Europa e al mondo che per
essere portata avanti ha bisogno del controllo delle fonti energetiche per
assicurarsene l'approvvigionamento, ma anche per stabilirne il prezzo e dettare
le condizioni della ripresa alle economie concorrenti. Tra queste sicuramente la
Cina che deve raddoppiare i suoi consumi energetici nei prossimi dieci anni se
vuole mantenere i ritmi di crescita del PIL (7-8% all'anno negli ultimi tre
anni), ma anche paesi come la Francia e la Germania che devono rivedere i loro
fabbisogni di idrocarburi in virtù di due aspet
ti: la Francia dovrà dismettere le metà dei suoi impianti nucleari per raggiunti
limiti di età e sarà difficile costruirne di nuovi data la grande sproporzione
di costi che c'è oggi tra questi e gli impianti convenzionali. La Germania ha lo
stesso problema con il carbone (miniere non più sovvenzionabili con aiuti
statali) e con i suoi impianti nucleari anch'essi vecchiotti. Per questi motivi
la "linea del fronte" tra USA ed Europa corre dall'Africa atlantica al Medio
Oriente e al Caspio e non promette niente buono per i lavoratori e per tutti gli
sfruttati della terra.
GLI STATI UNITI, L'ONU E I TRATTATI INTERNAZIONALI
Sono parecchi anni ormai che l'atteggiamento degli USA verso l'ONU é a dir poco
strumentale soprattutto per ciò che riguarda l'adozione di norme internazionali.
Da un lato infatti le usano per far condannare i loro avversari, dall'altro
cercano in tutti i modi di sottrarre il loro operato e quello dei paesi alleati,
al giudizio dell'ONU.
Gli USA si proclamano paladini mondiali dei diritti umani, della giustizia e
dell'ambiente, ma non hanno firmato o ratificato molti trattati e convenzioni
relative a questi temi. Inoltre sono i primi ad ostacolare, con uno
ostruzionismo feroce, l'elaborazione e l'approvazione di nuove norme
internazionali per fare in modo che queste norme non abbiano effetto su di loro.
Di seguito vengono riportati alcuni trattati e convenzioni ONU non firmati o non
ratificati dagli USA. Qualsiasi atto internazionale per essere riconosciuto
formalmente da uno stato (e quindi applicabile anche nei suoi confronti) deve
essere ratificato dagli organi istituzionali di quello stato; non é sufficiente
quindi che l'atto sia firmato da rappresentanti di governo in seno agli
organismi internazionali.
DIRITTI UMANI
Convenzione sui diritti dei bambini. Questa é la convenzione approvata più
diffusamente e rapidamente nella storia dell'ONU; vi aderiscono 191 paesi. Gli
unici due paesi che non l'hanno ratificata sono gli USA (firmata il 16 Febbraio
1995) e la Somalia.
Protocollo facoltativo della Convenzione sui diritti dei bambini relativo alla
partecipazione dei bambini nei conflitti armati. Firmato dagli USA il 15 Luglio
2000, ma non ratificato.
Protocollo facoltativo della Convenzione sui diritti dei bambini relativo alla
vendita dei bambini, alla prostituzione infantile e alla utilizzazione dei
bambini nella pornografia. Firmato dagli USA il 15 Luglio 2000, ma non
ratificato.
Patto internazionale dei Diritti Economici, Sociali e Culturali. Firmato dagli
USA il 15 Ottobre 1997, ma non ratificato.
Secondo protocollo facoltativo del Patto internazionale dei Diritti Civili e
Politici, destinato ad abolire la pena di morte. Gli USA non lo hanno firmato.
Convenzione Internazionale sulla repressione e la condanna per il crimine di
Apartheid. Gli USA non lo hanno firmato.
DONNE
Convenzione per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione verso le
donne (CEDAW) .
Questo trattato é la carta internazionale dei diritti delle donne. Stati Uniti,
Afganistan e Sao Tomé sono gli unici tre paesi al mondo che hanno firmato ma non
ratificato questa convenzione. Gli USA l'hanno firmata il 17 Luglio 1980.
Convenzione sul consenso al matrimonio, l'età minima per contrarre matrimonio e
il registro dei matrimoni. Firmata dagli USA il 10 Dicembre 1962 ma non
ratificata.
Trattato per la Repressione della tratta delle persone e dello sfruttamento
della prostituzione. Gli USA non lo hanno firmato.
AMBIENTE
Protocollo di Kioto. Accordo quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti
climatici. L'amministrazione Bush, ma precedentemente anche Clinton, non lo ha
firmato perché pregiudizievole per l'economia statunitense.
Gli USA sono i maggiori produttori mondiali di gas serra.
Trattato di Stoccolma sui Contaminanti Organici Persistenti. Solo dopo forti
pressioni dei gruppi ecologisti gli USA hanno firmato questo trattato il 23
Maggio 2001, ma non lo hanno ratificato.
Trattato di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontaliero dei rifiuti
pericolosi e della loro eliminazione. Firmato dagli USA il 22 Marzo 1990, ma non
ratificato.
Trattato sulla bio diversità. Firmato dagli USA il 4 Giugno 1993, ma non
ratificato.
Trattato delle Nazioni Unite sul diritto del Mare. Non é stato firmato dagli
USA.
Trattato per la protezione e utilizzazione dei corsi d'acqua transfrontalieri e
dei laghi internazionali. Non é stato firmato dagli USA.
Statuto del Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologia. Non
firmato dagli USA.
DISARMO
Trattato di proibizione degli armamenti nucleari. Firmato dagli USA il 24
Settembre 1996 ma non ratificato. Questo trattato entrerà in vigore per tutti
solamente quando ogni stato possessore di armamenti nucleari (in totale 44
Stati), lo avrà formalmente ratificato. Israele non lo ha firmato.
Convenzione che vieta l'impiego, immagazzinamento, produzione e esportazione di
mine anti -uomo e per la loro distruzione. Non é stato firmato dagli USA. Tra
gli stati non firmatari che si oppongono duramente a questo trattato ci sono
Corea del Nord, Iran e Irak.
Convenzione internazionale contro il reclutamento, l'utilizzo, il finanziamento
e l'addestramento dei mercenari. Non é stato firmato dagli USA.
Accordo internazionale per la repressione degli attentati terrosristici commessi
con bombe. Firmato dagli USA il 12 Gennaio 1998, ma non ratificato.
Accordo internazionale per reprimere il finanziamento al terrorismo. Firmato
dagli USA il 10 Gennaio 2000,ma non ratificato.
GIUSTIZIA
Dal 1945 la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja é sempre stata la sede
per la soluzione delle controversie fra stati. Il 7 Ottobre 1985 gli USA hanno
messo in mora questa Corte ritirando la loro adesione alla Dichiarazione firmata
il 26 Agosto 1946 che riconosceva come obbligatoria per tutti gli stati la
giurisdizione della Corte.
Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. La Corte Penale
Internazionale é un tribunale permanente per l'incriminazione di persone che
hanno commesso crimini di guerra come il genocidio e contro l'umanità, reati che
prima della costituzione di questo tribunale venivano assegnati a tribunali
temporanei costituiti ad hoc (l'ultimo in ordine di tempo é quello che sta
giudicando Milosevic). Gli USA hanno firmato l'atto costitutivo del tribunale il
31 Dicembre 2000, ma il 6 Maggio del 2002 dichiararono di non sentirsi obbligati
a rispettare la giurisdizione del tribunale perchè questo avrebbe potuto
giudicare cittadini statunitensi per accuse "frivole".
Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati. E' la convenzione base che
consente di stabilire il quadro giuridico di tutti i trattati internazionali e
la applicabilità stessa del diritto internazionale. Gli USA la hanno firmata il
24 Aprile 1970, ma non la hanno ratificata.
Convenzione sulla mancanza di prescrizione per i crimini di guerra e contro
l'umanità. Non é stata firmata dagli USA.
Convenzione delle Nazioni Unite contro la delinquenza internazionale
organizzata. Gli USA la hanno firmata il 13 Dicembre 2000, ma non l'hanno
ratificata.
ECONOMIA / LAVORO
Degli otto trattati fondamentali delle Nazioni Unite relativi al lavoro e
all'Organizzazione Internazionale del Lavoro, gli USA ne hanno firmati solo due
ponendosi allo stesso livello di Cina, Armenia, Birmania e Oman, ma dietro a
Qatar, Afganista, Somalia e Vietnam che ne hanno firmati tre ciascuno. Tra
quelli non firmati dagli USA ci sono:
Trattato sulla libertà sindacale e la protezione del diritto di
sindacalizzazione.
Trattato sul diritto di sindacalizzazione e contrattazione collettiva.
Trattato sull'età minima di avviamento al lavoro.
LA CRISI DEI MERCATI FINANZIARI
La crisi dei mercati finanziari ha i suoi lontani presupposti nella deregulation
voluta da Reagan negli anni '80 che favorì le concentrazioni e le fusioni
societarie, grazie ai forti benefici fiscali concessi dalle nuove leggi alle
grandi corporazioni. Ma questo processo di concentrazione economica ed
industriale aveva bisogno di capitali per realizzarsi, per ciò le industrie si
indebitarono con le banche al punto che, tra il 1983 ed il 1990, oltre il 70% di
tutte le acquisizioni azionarie realizzate negli USA erano state fatte da
società non finanziarie proprio con i soldi avuti in prestito dalle banche.
Quantità enormi di denaro, ma ancora poco rispetto al movimento di capitali che,
iniziato nell'era Clinton, si è trascinato fino ad oggi.
Nella seconda metà degli anni '90 il valore annuale delle acquisizioni azionarie
delle società industriali negli USA si è quadruplicato, facendo salire ancora di
più l'indebitamento verso banche ed istituti finanziari. E di nuovo furono le
stesse società a riacquistare sul mercato le loro proprie azioni o quelle
risultanti da nuovi processi di fusione.
Ma perché indebitarsi per ricomprare le proprie azioni, quando emettendone di
nuove si sarebbe raggiunto lo stesso risultato?
Il fatto è che in quegli anni si andava affermando la "teoria" della "Corporate
governance" in cui, tra l'altro, si adottava come remunerazione dei managers il
criterio delle "stock options".Il tutto era favorito da un insieme di regole e
leggi che resero possibile la redazione di bilanci artefatti, con utili
gonfiati, contribuendo così all'enorme livello di capitalizzazione delle borse
registrato fino al 2000. Più le azioni salivano in borsa, più aumentava per il
manager il valore remunerativo della sua stock option, e siccome queste non
erano messe a bilancio come costi (come accadeva per stipendi ed onorari) ecco
spiegato perché i managers ricomprarono le azioni delle società da loro stessi
guidate, facendole indebitare con le banche. I managers delle grandi
corporations, le società di revisione dei conti insieme ai politici che hanno
varato apposite leggi, hanno messo in atto la più grande rapina della storia del
capitalismo che ha provocato milioni di licenziamenti
in tutto il mondo e ha messo ha rischio la pensione di altri milioni di
lavoratori.
Nel 1999 la remunerazione annuale media del presidente di una delle 400 maggiori
società degli USA aveva superato i 12 milioni di dollari: vale a dire sei volte
quella del 1990 e 475 volte quella percepita da un lavoratore medio
dell'industria! Tra il 1994 e il 1999 l'ammontare dei prestiti richiesto da
società non finanziarie raggiunse la cifra di 1200 miliardi di dollari di cui
solo il 15,3% venne utilizzato per investimenti mentre il 57% servì a ricomprare
le azioni della propria società, facendo così salire -insieme alla quotazione di
borsa- la loro stock option.
Il movimento, la crisi, la guerra
I cambiamenti nella situazione nazionale ed internazionale nel pieno della crisi
del capitale e delle istituzioni.
Le questioni poste dai movimenti sociali tra antiliberismo e anticapitalismo.
La proposta di un dibattito e di un confronto.
Da Seattle in poi
In principio dunque fu Seattle. I delegati al vertice WTO rinchiusi nelle loro
stanze di albergo, la sede dell'incontro circondata, la città invasa dai
manifestanti con il loro carico di violenza che non veniva solo dai black block.
Immagini che hanno fatto il giro del mondo documentando inequivocabilmente la
radicalità del neonato movimento. Radicalità di comportamento che non
necessariamente coincide con obiettivi e contenuti altrettanto radicali, specie
quando si è di fronte a movimenti compositi.
Nel caso di Seattle l'impostazione data dal DAN (Direct Action Network) alle
manifestazioni di piazza fu stravolta non tanto per volontà dei black block,
quanto dal comportamento dei manifestanti dell'AFL-CIO (sindacato operante negli
USA) che per primi decisero lo sfondamento dei cordoni di polizia. E a ben
guardare la presenza dell'AFL-CIO non era esente da interessi corporativi
(tutelare la produzione "nazionale" rispetto a quella "sovranazionale"), se
messa a confronto dell'orizzonte assai più vasto delineato durante l'Incontro
Internazionale per l'Umanità e contro il Neoliberismo del 1996 che, a sua volta,
riprendeva i temi degli zapatisti di Marcos.
E' dunque un movimento che fin dall'inizio non pone direttamente tra le sue
istanze questioni di potere, ma riesce a smuovere settori sociali diversi su di
un terreno principalmente etico, di rifiuto e opposizione ai meccanismi più
brutali del capitalismo neoliberista.
Infatti i principali responsabili di questo processo vengono individuati più
negli organismi economici sovranazionali (come il WTO) che in quelli di governo
politico quali l'ONU o la NATO, come se l'operato di questi ultimi fosse
ininfluente rispetto alle politiche di finanziarizzazione e privatizzazione
dell'economia - tipiche del neoliberismo - che producono deficit evidenti di
democrazia borghese e devastazione ambientale, specie nel sud del mondo.
Non a caso le questioni centrali, che trovano la loro definizione nel primo
Forum di Porto Alegre, sono la Tobin Tax, la democrazia partecipata, gli accordi
di Kioto, il no logo, insieme al riconoscimento delle istanze dei popoli
indigeni (soprattutto per quanto riguarda l'uso del territorio e delle sue
risorse).
Fin dal suo esordio la partecipazione a questo movimento fa registrare un
percorso costante di crescita e di attrazione sia alla sua "sinistra"
(anarchici, antimperialisti, comunisti, etc) che tentano di forzarne il
carattere anticapitalista ancora inespresso, sia alla sua "destra" (cattolici,
socialdemocratici, ong, etc) che cercano di esaltarne il carattere etico e
riformista per usarlo in funzione calmieratrice degli eccessi neoliberisti,
senza mettere in questione l'intero sistema.
Questo processo avviene senza particolari polemiche in un clima effettivo di
rispetto delle "diversità" quasi che tutte le sue componenti siano più impegnate
a far crescere quantitativamente il movimento che a caratterizzarlo secondo i
propri punti di vista; caratteristica questa, riscontrabile anche negli
appuntamenti internazionali successivi a Seattle, come Praga, Goteborg e in
parte Napoli.
Saranno gli appuntamenti "italiani" e in particolare Genova, a immettere nel
movimento delle dinamiche interne tutt'ora presenti.
Genova, dopo Genova
La riflessione sulle giornate di Genova è ancora tutta da realizzare, perchè
come accade sovente di fronte alla accelerazione delle pratiche repressive, ci
si ritrova a far fronte a diverse esigenze: denunciare e documentare il
comportamento delle forze dell'ordine da un lato, difendersi dalle inchieste
della magistratura e resistere alle campagne di pressione mediatica dall'altro.
Già durante il vertice di Napoli del 2001 si era intravisto quale fosse
l'atteggiamento "italiano" nella gestione della piazza: impiego congiunto di
tutte le forze di polizia sotto un comando centralizzato con pieni poteri di
intervento.
Detto di passaggio, sarà proprio questo il tratto comune che lega la fine della
legislatura di centrosinistra e l'inizio di quella di centrodestra. Genova
infatti sarà un fortino con strade sbarrate e quartieri isolati, barricate fisse
fatte di lamiere e tralicci, e barricate mobili fatte di centinaia di containers,
e a fronteggiare una manifestazione tanto enorme quanto inerme, tutte le forze
di polizia (con blindati e cingolati) pronte a fare la guerra.
E guerra in effetti c'é stata, dichiarata non dal movimento bensì dalle forze
dell'ordine, e prima ancora da un potere sovranazionale tanto vuoto da doversi
blindare, recingere.
Cariche violentissime ed indiscriminate contro chiunque passasse per le vie
della città, lacrimogeni sparati ad altezza d'uomo, colpi di arma da fuoco,
blindati lanciati a tutta velocità contro la folla, un giovane compagno
ammazzato, il blitz sanguinoso alla scuola Diaz in notturna, la tortura
reintrodotta nelle caserme di Bolzaneto e Forte S. Giuliano. Questa é stata
Genova: lo stato di diritto fatto a pezzi.
Finchè questa verità non sarà agli atti dei tribunali, delle istituzioni, nella
società civile, non ci saranno inchieste né su cassonetti ribaltati, né su
furgoni bruciati, che possano placare la memoria ferita di chi a Genova c'era e
di chi pur non essendoci ha potuto vedere...come tutti nel mondo.
Era prevedibile un comportamento così violento e aggressivo? Considerata la
gravità dei fatti accaduti é difficile dirlo. Meno dubbio appare il fatto che la
situazione nel suo complesso sia stata sottovalutata: tra i proclami di
invasione da parte delle tute bianche e gli inviti a una scampagnata dei settori
più moderati, non si é affermato quel semplice criterio di buon senso che
avrebbe consentito di organizzare un livello di protezione del corteo.
Ma è nel dopo Genova che le contraddizioni interne si acuiscono anche per il
precipitare della situazione internazionale.
Infatti, dopo gli attentati dell'undici Settembre, se da un lato il movimento è
stato capace di individuare nella "guerra infinita" l'elemento centrale su cui
costruire la propria opposizione, dall'altro l'atteggiamento "vittimista e
buonista" delle giornate di Genova è stato accentuato dalla necessità di
difendersi dall'offensiva politica e mediatica che vorrebbe ridurre ogni forma
di opposizione a contiguità con il terrorismo comunque identificato. Per cui il
discrimine violenza/non violenza ha segnato aprioristicamente il confronto
interno al movimento, non solo nella sua pretesa rappresentatività, ma anche
nella ammissibilità a farne parte, e a pagarne il prezzo prima ancora che le
componenti di sinistra, sono stati i contenuti anticapitalistici e di classe.
Diritti e repressione.
Questa deriva moderata ha favorito l'emergere di uno schieramento composito,
interno ed esterno al movimento, che raccoglie - oltre all'arcipelago
disobbediente - pezzi di società civile, componenti sindacali, ambientalisti,
ONG, intorno al tema dei diritti. Diritto alla dignità (delle persone e del
lavoro), diritto di cittadinanza (da cui si fa discendere il reddito di
cittadinanza), diritto alla disobbedienza, ma anche diritto all'"acqua" o alla
"terra", che nel loro insieme riecheggiano le posizioni del Movimento per la
globalizzazione dei diritti umani. Qui la CGIL e Cofferati da una posizione
subalterna (o addirittura ostile come nel caso di Genova 2001 e del referendum
sull'art. 18) verso il movimento, ne sono diventati prima i garanti
(manifestazione di Firenze) per poi compattare Arci, Lilliput e girotondi verso
il progetto di rifondazione ulivista.
Non è un caso che a partire dalla manifestazione di Roma del 23 marzo 2002 la
CGIL abbia riempito di più le piazze quando si presenta come interlocutore
generale della sinistra, che durante gli scioperi dei lavoratori; e proprio
sfruttando questa doppia funzione è riuscita a ribaltare la sua immagine: da
sindacato concertatore a sindacato di movimento, da controllore delle lotte a
gestore del dissenso.
Forse questa era una tappa obbligata per la CGIL (considerata la caduta di
credibilità degli ultimi anni) e forse neppure i suoi vertici sanno dove
andranno a parare (anche se le sollecitazioni del quadro politico di sinistra
sono per ricomporre l'unità sindacale ), ma è un fatto che questo dinamismo ha
sottratto spazi di agi- bilità sia al sindacalismo di base sia ai settori più
radicali del movimento.
Ma le incertezze hanno pesato anche sul piano della lotta alla repressione. Le
frettolose prese di posizione e gli avventati "distinguo" che sono stati fatti
in relazione alle inchieste di Genova, Taranto, Cosenza e Napoli sono il segno
che il "rispetto delle diversità" che faceva da collante al movimento, non è
capace di reggere il confronto con l'Ordine Costituito tanto più in una totale
assenza di dibattito.
Se neppure di fronte all'evidenza di una richiesta esplicita di dissociazione
("abiura" è il termine ricorrente negli atti dei tribunali, ultimamente) si
riesce a cogliere la gravità di certe operazioni; se neppure di fronte al
paradosso di ordinanze che rifiutano la liberazione degli arrestati con
l'assurda motivazione che "gli anarchici preferiscono rimanere in galera per
guadagnare consenso di fronte al loro schieramento" (parole dei giudici!!!), si
riesce a tenere una minima linea di difesa comune, che vuol dire semplicemente
impegnarsi per mettere in piedi una mobilitazione ampia, inclusiva finchè si
vuole, ma determinata a ristabilire una verità prima di tutto storica e
politica, oltre che giudiziaria, su Genova, allora significa che il "movimento
dei movimenti" è malato di una malattia perniciosa da cui è bene guardarsi.
Non si può stare insieme di fronte alle telecamere e poi prendere le distanze di
fronte ai giudici!
Il rischio per i compagni è di non tenere nel debito conto gli scenari che vanno
ad aprirsi nel momento in cui si palesa un attacco dichiarato ai movimenti
sociali ed emerge un'indicazione di quali siano gli obiettivi che lo Stato
persegue: scoraggiare la partecipazione di massa alle iniziative promosse dai
diversi settori sociali fin qui colpiti, "ammonire" e spaventare soprattutto i
più giovani, impedire che si radicalizzi un'opposizione sociale.
La globalizzazione della crisi
Neoliberismo e globalizzazione sono i termini generici con cui - anche nel
movimento- si allude al sistema mondo attualmente dominante.
Entrambi i termini però, dato il forte contenuto simbolico a loro
attribuito, danno per scontate una serie di considerazioni sulle
trasformazioni sociali date che finiscono alla lunga per restare
superficiali se non vengono sottoposti all'esame stringente delle
contraddizioni ma- teriali per quanto riguarda il rapporto tra capitale e
lavoro.
Il quadro generale ci consegna l'immagine di un capitale trionfante, ma
piegato su stesso in tutto il mondo avanzato; una condizione di stagnazione
produttiva e dei mercati che va dall'est estremo, (Giappone, Corea),
all'Europa, agli Stati Uniti, all'America latina, con uniche eccezioni
nell'Asia povera, Cina, India, e in modo più contenuto nell'est europeo.
Non a caso Cina ed est europeo sono i luoghi per eccellenza del
decentramento produttivo che però non consentono (non ancora) livelli di
consumo tali da far ripartire il meccanismo di accumulazione su scala
globale.
Crisi strutturale dunque, a cui si è sommata una crisi dei mercati
finanziari tutta interna all'assetto capitalistico USA nonostante che nel
decennio passato, l'espansione dei mercati e l'accumulazione dei profitti
abbiano raggiunto valori elevatissimi.
Ma quale sono state in effetti le caratteristiche di questo ciclo di
espansione che si identifica con l'avvento della globalizzazione?
Le politiche neoliberiste prendono decisamente corpo agli inizi degli anni
'90 caratterizzandosi ovunque con processi di privatizzazione delle imprese
e di deregolamentazione legislativa che vanno nel senso sia di limitare le
prerogative dello stato che di ridurne la presenza e le competenze nei
principali settori dell'economia: lavoro e previdenza; bancario e
societario; concessioni per sfruttamento materie prime e servizi. Il tutto
finalizzato a dare maggiore remuneratività agli investimenti di capitale
dopo aver normalizzato il prezzo del petrolio "regolando" la questione
irachena.
Il capitale si concentra
A livello macroeconomico un indicatore significativo sono gli Investimenti
Stranieri Diretti (ISD), ovvero i capitali freschi introdotti
nell'economia di un paese.
Secondo i dati della Banca Mondiale e dell'UNCTAD nel 1990 gli ISD nei Paesi
in Via di Sviluppo (PVS) erano inferiori di otto volte a quelli nei Paesi
Sviluppati (PS) e cioè 23 miliardi contro 186 miliardi di dollari; nel 2000
tale rapporto era ancora di circa cinque volte (190 miliardi contro 899
miliardi di dollari) confermando l'apparente contraddizione per cui il
capitale (che è quasi totalmente sotto il controllo dei PS) non va verso i
PVS se non per un 20%, mentre per l'80% gli stessi PS lo investono "fra di
loro". In particolare gli ISD in Europa sono aumentati di sei volte tra il
'95 e il 2000 raggiungendo la cifra di 617 miliardi di dollari (68% del
totale mondiale), mentre per lo stesso anno gli ISD negli Usa sono stati
pari a 250 miliardi di dollari (27% del totale mondiale) e 32 miliardi in
Giappone (5%).
Se si rapportano questi dati alla popolazione corrispondente dei due
aggregati (quella dei PVS è assai più numerosa di quella dei PS) ci si rende
conto che la quota di investimento per abitante nei PVS è irrisoria e
dunque senza benefici per la popolazione, mentre questi (i benefici) si
sarebbero dovuti riscontrare per le popolazioni dei PS considerato l'alto
valore dell' in- vestimento per abitante.
Non è così. Nel periodo considerato infatti, risulta che le modalità con cui
sono stati spesi questi ISD hanno riguardato per il 70% acquisizioni e
fusioni societarie (merger & acquisition). Nel solo quadriennio 1995-99
questa attitudine si è quadruplicata in valore raggiungendo la cifra di 720
miliardi di dollari nel 2000 pari all'80% del totale ISD nel mondo. Ciò
significa che solo il 20% degli ISD nel mondo ha riguardato nuovi
investimenti (gli unici che in teoria potrebbero dare qualche beneficio per
esempio nell'oc- cupazione) mentre la stragrande maggioranza è andata in
processi di concentrazione capitalistica (dominio dei mercati, eliminazione
della concorrenza, internazionalizzazione della produzione) a cui sono
seguiti inevitabilmente enormi tagli occupazionali.
I settori più interessati da questa concentrazione sono stati quello
bancario, automobilistico, farmaceu- tico, telecomunicazioni, energia
(petrolio ed elettricità): Chevron-Texaco; Exxon-Mobil; BP-Amoco;
TotalFina-Elf, sono i "nuovi" concentrati petroliferi; Daimler-Crysler;
Renault-Nissan; BMW-Rover; quelli automobilistici; UBS_Credit Suisse quelli
bancari, e così via.
Due altre considerazioni vanno fatte riguardo a questo processo di
concentrazione: la prima è che i soldi spesi dalle imprese hanno comportato
un enorme livello di indebitamento verso le banche, non recuperato come si
credeva, dall'ipervalutazione di borsa. L'altra è che a ben guardare il
decennio trascorso, gli investimenti in nuova tecnologia sono stati scarsi
e concentrati soprattutto nel settore TLC, biotecnologie, informatica.
Tra questi solo le biotecnologie (e i settori collegati dell'alimentazione,
sanitario e in parte farmaceutico) possono vantare ritorni significativi;
per le TLC invece gli investimenti in nuova tecnologia si sono dimostrati ad
altissimo rischio, la terza generazione di telefonia mobile infatti,si é
rivelata un flop facendo dimezzare complessivamente il valore di borsa delle
società di telecomunicazioni in tutto il mondo.
Eppure il settore TLC é quello dove si sono registrate il maggior numero di
fusioni e acquisizioni societarie: ben 118 nel decennio 1990-2000 per un
valore totale di oltre 1000 miliardi di dollari!
Il ruolo dell' informatica
Quanto all'informatica occorre ridimensionarne la reale incidenza, al di là
delle ovvie e scontate descrizioni sulla diffusione dell'uso del computer e
di internet. Le transazioni finanziarie e di borsa e tutto ciò che riguarda
il cosiddetto mercato dei capitali, sotto forma di capitali "virtuali", ha
raggiunto uno sviluppo senza precedenti grazie alle tecnologie legate
all'informatica e alle TLC: in pratica da Tokio a New York passando per
tutte le borse europee, il sistema borsistico mondiale é sempre aperto
consentendo un "giro" di capitali che si stima essere diciotto volte
superiore a quello di tutti i beni e servizi prodotti in un anno nel mondo.
Ma l'informatizzazione dei processi produttivi in senso stretto (software di
impresa; gestione scorte-approvvigionamenti; distribuzione; pagamenti) al
pari di quella riconducibile alla sfera del consumo privato (e-commerce) si
sono dimostrate inadeguate a fronteggiare la complessità dei mercati. In
primo luogo si sono rivelate poco flessibili rispetto ai mutamenti del
mercato (tipologia e quantità delle merci da produrre); in secondo luogo i
costi per le imprese (in termini di acquisto dei software e relativa
assistenza) sono talmente lievitati da riassorbire i margini di
competitività economica per i quali erano stati concepiti.
E i riflessi negativi in borsa non si sono fatti attendere.
L'information technology - e con essa l'immagine stessa della new-economy -
si configurano più come elementi accessori delle trasformazioni in atto nel
modo di produzione capitalistico, che come modello di gestione globale del
mercato.
Se una efficacia va ricercata in queste tecnologie, essa risiede
nell'ulteriore apporto dato ai processi di scomposizione della forza
lavoro, non tanto in termini di sostituzione della stessa (cosa avvenuta
negli anni '80 con la automatizzazione della produzione), quanto per la
maggiore difficoltà che la forza lavoro incontra nel confrontarsi
omogeneamente con questi processi e quindi nella possibilità di
controllarli.
Ma questo é ben altra cosa dal dare credito alle suggestioni di un mondo
governato dai computer e di una economia globalizzata grazie alla
new-economy.
Gli enormi profitti accumulati nel decennio passato - l'era della
globalizzazione per antonomasia - non vanno attribuiti in senso stretto alla
dimensione globale assunta da produzione e consumo (processo questo già in
corso dalla metà degli anni '70 attraverso la creazione delle Free
Production Area ), ma alla applicazione su scala internazionale delle
politiche liberiste richiamate sopra, che nel loro insieme hanno consentito
questa accumulazione nonostante che la quantità di capitali immessa in nuovi
investimenti e tecnologie si sia rivelata modesta. Ciò ha significato
l'abbattimento dei residui elementi di rigidità e tutela (laddove ancora
esistevano) nell'impiego della forza lavoro, determinandone un ulteriore e
generalizzato impoverimento e indebolimento.
La compressione dei salari e la diminuzione dei redditi che si é registrata
negli ultimi anni, non hanno precedenti nella storia recente del
capitalismo: basta pensare che nel 1972 un barile di petrolio costava appena
due dollari (e il dollaro valeva meno di 500 lire) ovvero circa
l'equivalente di un'ora di lavoro di un lavoratore europeo; oggi un barile
di petrolio costa 30 dollari che equivalgono ad una giornata lavorativa di
un lavoratore europeo ma anche al salario mensile di un lavoratore in molti
paesi del terzo mondo.
segue
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Il caso Italia
Gli aspetti che caratterizzano la situazione italiana non sono dissimili dal
quadro internazionale che abbiamo tracciato, ma alcuni di questi rivestono una
particolare criticità.
Le scelte fatte negli ultimi anni per sconfiggere il ciclo delle lotte
anticapitalistiche degli anni '60 e '70 sembrano aver prodotto i loro effetti;
effetti che si sono intrecciati con i percorsi imposti dalla riorganizzazione
internazionale del capitale su scala globale. Da una parte infatti i processi di
esternalizzazione e delocalizzazione della produzione hanno raggiunto il duplice
obiettivo di ridurre i costi di produzione e destrutturare la classe; dall'altra
però l'ulteriore polverizzazione della produzione (il cosiddetto modello
italiano delle piccole e medie imprese) non ha favorito la formazione di sistemi
d'impresa in grado di confrontarsi con le economie di scala imposte dalle nuove
condizioni del mercato. Una prima conseguenza di questo processo -che non sembra
dare segnali di inversione di tendenza- è data dall'appesantimento dei sistemi
infrastrutturali sul territorio: amministrazioni locali, sistema della mobilità,
qualità delle merci e della vita, comunicazi
oni, sanità e così via.
Contemporaneamente gli inevitabili processi di integrazione per grandi aree
geoeconomiche e quindi i vincoli imposti dalla costruzione dell'entità europea,
hanno messo a nudo la debolezza strutturale del sistema produttivo nazionale: a
differenza del capitale internazionale che punta sulle grandi concentrazioni
finanziarie e industriali, il sistema Italia tende a disarticolare la sua già
debole struttura portante confidando nella politica delle tutele di stato (come
nel caso di Electricitè de France a cui è impedito di crescere nel capitale di
Italenergia), o nei veti incrociati dei patti di sindacato aziendali (vedi
affare Mediobanca).
D'altra parte anche il sistema bancario italiano conferma la sua incapacità a
confrontarsi col mercato: non è un caso che non esistano in Italia vere banche
d'affari che siano in grado di finanziare progetti e investimenti privati o di
fare acquisizioni societarie. La regola è non prendere rischi, per questo
l'attività principale di tutte le banche italiane è quella cosiddetta di
"sportello" (gestione pagamenti, pensioni, conti correnti etc) e la conferma
ulteriore viene dal fatto che solo in Italia ha preso piede così rapidamente la
"cartolarizzazione" che consiste nel fare cassa piazzando sul mercato le entrate
future che si attendono da un'attività (immobiliare o di servizi). Tipica
attività di intermediazione dove il rischio per la banca che gestisce
l'operazione è zero e la provvigione certa.
In questo contesto anche l'impossibilita di utilizzare la manovra monetaria, per
esempio, ha svelato tutta la fragilità del cosiddetto made in Italy,
prospettando realisticamente lo smantellamento del sistema produttivo nazionale,
laddove i processi di privatizzazione contribuiscono ulteriormente a ridurre le
capacità concorrenziali del cosiddetto sistema Italia, oltre, naturalmente, a
sottrarre alla collettività quei servizi introdotti come risposta politica alle
lotte dei decenni trascorsi e a moltiplicare i costi della riproduzione
dell'esistenza.
Da quanto detto scaturiscono le linee principali di contraddizione che vivono i
settori sociali non assimilati al sistema delle imprese: riduzione della
capacità d'acquisto dei redditi non imprenditoriali, collasso delle garanzie
contrattuali della forza lavoro in tutte le sue forme, aumento della fatica del
vivere quotidiano, diffusione sempre più preoccupante della frustrazione sociale
e individuale, incremento dei meccanismi di coazione e controllo imposto da un
sistema incapace di uscire dalla sua crisi garantendo una credibile nuova fase
di sviluppo.
A fronte di queste condizioni strutturali, il quadro politico riferibile al
sistema dei partiti ne risulta conseguentemente peggiorato. L'effetto
tangentopoli come segnale di rinnovamento del sistema, è stato regolato
all'interno della stessa corporazione politica con la sostituzione dei
socialisti da parte della nuova compagine di centrosinistra e i successivi
tentativi di rispondere a questa crisi di sistema mutuando i valori dell'impresa
nella politica hanno portato, per la seconda volta in un decennio, i
postfascisti al governo alla cui guida si trova un personaggio sicuramente poco
credibile, ma che è l'immagine coerente di un capitalismo bottegaio e marginale,
di un "paese" accondiscendente e approssimativo.
Questa situazione è frutto dei processi di scomposizione della classe e della
marginalizzazione dei movimenti, ma al tempo stesso ci consegna il definitivo
immiserimento della cosiddetta sinistra istituzionale, che è marciato
parallelamente al collasso del personale politico liberale della prima
repubblica, naturale interlocutore del sistema delle imprese.
Rispetto a una cornice come questa ed in presenza di un'opposizione parlamentare
inesistente perché partecipe degli stessi valori e concezioni generali di quelli
che governano, non c'è da stupirsi che si arrivi nel paese a momenti di
conflitto sociale che si manifesta in forme anche radicali, mentre sul piano dei
contenuti restano sostanzialmente assenti proposte alternative o almeno
indipendenti.
Le lotte sui posti di lavoro nell'ultimo periodo sono fortemente indicative. Dai
lavoratori delle pulizie delle stazioni a quelli della Fiat si sono ripetute con
preoccupante stanchezza situazioni già vissute: il padrone cancella i posti di
lavoro, o per risparmiare o per passare ad altro, e il lavoratore cacciato si
appella ad una sorta di "misericordia sociale" perché gli sia consentito di fare
quello che ha sempre fatto, incapace di alzare la testa, cercare alleanze, di
costruire lotte comuni con i lavoratori precari che vengono macinati
dall'arbitrio padronale molto più di quelli cosiddetti stabili. In questo
comportamento si misura l'incapacità dei lavoratori ad abbandonare una logica di
rappresentanza sindacale che nonostante sia orfana della concertazione, continua
ad essere esistenzialmente legata al carro del potere. Questo vuoto di
iniziativa operaia non trova sbocco nemmeno nelle iniziative portate avanti dal
sindacalismo di base a conferma di una mancanza di prog
ettualità generale di fronte alla crisi, per cui nell'assenza di contenuti e
nella scarsezza di dibattito sulla fase che stiamo attraversando, finisce per
prevalere la rappresentanza numerica delle organizzazioni.
E su questo aspetto la CGIL ha giocato il suo potere di condizionamento a
partire dalla manifestazione del 23 marzo 2002 senza peraltro ottenere nulla,
sia rispetto alla finanziaria sia in relazione alle leggi delega che
introdurranno ciò che manca in termini di flessibilizzazione e precarizzazione
del lavoro.
Di nuovo e prepotentemente si avverte che le grandi mobilitazioni e convegni
(Porto Alegre, Firenze, Roma e tutte le altre che ci sono state) hanno lasciato
irrisolta la questione delle diversità e dei punti di vista presenti nel
movimento favorendo di fatto una coesistenza tanto pacifica quanto inefficace
tra chi il mondo lo vuole rendere compatibile e chi lo vuole rovesciare.
La guerra passata e quella che verrà
Dal microcosmo del proprio collettivo o comitato alla interpretazione del
conflitto sociale su scala planetaria, il passo è ardito.
Ma non ci si può sottrarre a questo esercizio di dialettica, purchè essa sia
ricondotta alla materialità dei fatti.
C'è stata una guerra che ha smembrato ciò che restava del precedente ordine
internazionale, quello per intenderci, uscito vincitore dopo il crollo
dell'Unione Sovietica. In poco più di dieci anni questi vincitori sono stati
capaci di fare tre guerre, l'ultima delle quali ha fatto conoscere al mondo i
presupposti per cui la prossima potrebbe essere combattuta tra gli stessi
vincitori.
C'è però un altro conflitto in corso da molto più tempo - quello tra capitale e
lavoro - che si combatte perché questo stato di cose, questo ordine costituito
dai vincitori, sia definitivamente cancellato.
I fatti ci indicano che lo stato di salute del capitale è scosso da una crisi
interna di cui non si avvertono i limiti essendo scomparso quello che nel mondo
dei blocchi contrapposti est-ovest, era il limite oggettivo alle crisi
periodiche del capitalismo: l'esistenza stessa dell'Unione Sovietica.
In altre parole la possibilità che una crisi interna evolvesse fino al punto di
determinare un tracollo generale dell'economia capitalista, doveva essere
impedita a priori a meno che il blocco occidentale non fosse disposto a correre
due rischi potenziali: aspettarsi il colpo di grazia dell'URSS consegnando il
mondo alle "orde comuniste", oppure attaccare preventivamente l'Unione Sovietica
scatenando la guerra nucleare totale.
La storia, come sappiamo, ha risolto la questione diversamente e (a prescindere
dalle valutazioni emotive) in un modo assolutamente necessario perché il limite
alla crisi rappresentato dall'URSS era anche il limite della crisi, nel senso
che lo sviluppo delle contraddizioni di capitale e lo sviluppo dei comportamenti
antagonisti (diciamo pure lo scontro di classe) venivano limitati da questa
presenza.
La novità dell'attuale crisi capitalistica sta dunque nell'essere questa la
prima evidente crisi dell'era post sovietica in cui le condizioni date non hanno
- teoricamente - limiti.
Quali scenari è possibile dunque delineare, che non siano ovviamente quelli di
un crollo o implosione del sistema capitalistico?
La new economy non va
Abbiamo già visto come il decennio passato sia stato un periodo di
concentrazione di capitali e di imprese che ha riservato assai poco agli
investimenti cosiddetti produttivi o in nuove tecnologie. Ciononostante è stato
definito come il periodo della "new economy" proprio per il modo con cui si
rappresentava la conduzione dell'economia globale: più computer e meno presse,
più lavoro immateriale e meno mani callose.
Insomma il capitalismo trionfante e i suoi esegeti potevano finalmente mettere
in scena "The Empire" un music-hall post- moderno il cui gran finale doveva
essere rappresentato dall'avvento di una soft economy fondata sull'Etica e sui
Saperi.
Il potere "desterritorializzato", dopo la cacciata degli Stati-Nazione dalla
Terra, si trasferiva nell'Impero che come primo magnanimo atto decretava la
sospensione della Storia facendo intendere che senza troppi problemi e fastidi
sarebbe, prima o poi, uscito di scena per lasciare il posto alle "moltitudini"
festanti: San Francesco D'Assisi benedicente.
Fuori delle suggestioni ma dentro la contraddizione materiale, l'esplodere della
crisi (economica, strutturale e finanziaria) ha rimesso a posto la realtà che
qualcuno aveva capovolto. Tutte le previsioni di crescita dei profitti ed
espansione dei mercati sono state riviste al peggio da più di due anni: le borse
di tutto il mondo hanno bruciato l'equivalente di una ricchezza incalcolabile
trascinando nel baratro colossi industriali, società di consulenza, fondi
pensione e soprattutto centinaia di milioni di lavoratori e risparmiatori che
costituivano l'essenza stessa del mercato. Neanche le manovre monetarie come le
ripetute riduzioni dei tassi di interesse in USA e Europa, sono servite più di
tanto a ridare "fiducia" nei mercati.
Un ciclo "pesante"
Come se ne viene fuori? A nostro avviso ci sono due livelli di analisi. Il primo
riguarda l'atteggiamento del capitale (troppo presto per parlare di strategia)
verso un nuovo ciclo di espansione: profitti gonfiati e volatilità di borsa
hanno dimostrato che il ciclo della new economy ha prodotto instabilità e
incertezza da cui non si esce senza dare un giro di vite complessivo alla
dispersione dei capitali e alla strutturazione degli investimenti. Una
ristrutturazione "pesante" del ciclo indirizzata prevalentemente nei settori
tecnologici, delle infrastrutture e soprattutto nelle materie prime, fermi
restando i "presidi" agroindustriali, biotecnologici e dell'alimentazione.
Petrolio e acqua, tra le materie prime, hanno una assoluta preminenza per la
loro insostituibilità di impiego e quindi per il loro valore strategico che non
è remunerato a sufficienza rispetto alla loro disponibilità. Se è vero come si
afferma da più parti che le riserve di acqua e petrolio sono scarse rispetto al
consumo che se ne fa, allora non possono che aumentare di prezzo secondo la più
elementare legge del capitale.
Acqua significa bacini, dighe, acquedotti, depurazione, in altre parole
infrastrutture che vanno realizzate, gestite e rese "sicure" in termini di
investimenti e ritorni dei capitali. Ma anche in termini di sicurezza vera e
propria perché l'acqua non è solo per usi potabili ma industriali e agricoli.
Petrolio significa ancora di più. Petrolio vuol dire immediatamente ciclo
dell'auto, energia, chimica di base. Secondo le stime delle maggiori compagnie
petrolifere e del DOE (Dipartimento dell'energia del governo USA) il prezzo del
petrolio potrebbe raggiungere i 40 dollari al barile(in moneta reale) nel 2020,
vale a dire il 30% in più del prezzo attuale, mentre nei precedenti venti anni
il prezzo del petrolio era calato dai 38 dollari/barile del 1979 (crisi
iraniana) ai 20 dollari/barile del 2000. Prendendo per buone queste stime, che
ovviamente sono influenzate da una serie di fattori, come i tassi di produzione
e consumo in relazione alle riserve esistenti, si ha l'idea di che tipo di
spinta si intende dare all'economia nel suo complesso, considerata l'incidenza
dei costi energetici ed in particolare del petrolio, nella produzione di merci.
Fra tutti i comparti produttivi ad essere condizionato da questa impostazione, è
principalmente il settore automobilistico che dovrà necessariamente "adeguarsi".
Qui si aprono scenari futuribili (difficile usare oggi il termine possibili)
legati alla tecnologia di combustibili sostitutivi e principalmente all'idrogeno
(celle a combustibile etc) su cui stanno investigando congiuntamente sia le
maggiori case automobilistiche che le compagnie petrolifere. D'altra parte è pur
vero che l'automobile "a combustione interna" - come oggetto di consumo - sta
raggiungendo il limite della sua evoluzione tecnologica, della sua
diversificazione ma soprattutto della sua sostenibilità economica dati i costi
di acquisto e gestione da un lato, e i costi ambientali dall'altro. La crisi
delle vendite degli ultimi anni è precedente all'aumento del prezzo del
petrolio, né le concentrazioni realizzate nel settore hanno messo le società
costruttrici al riparo dalla crisi che, con la prospettiva d
i aumento del prezzo dei carburanti, non può che persistere o acuirsi.
Le scelte generali che si prospettano nel medio periodo dunque, non sono
determinate tanto da una valutazione puntuale della quantità ancora disponibile
delle risorse energetiche (petrolio e gas principalmente), ma dalla necessità di
riproporzionare il loro tasso di sfruttamento in termini economici ed imporre
quelle modifiche strutturali senza le quali il ciclo stesso del petrolio
verrebbe messo in discussione. Che il petrolio finirà non c'é dubbio, ma quando?
Tra cinquanta o cento anni? Nel frattempo che la disputa sia risolta, diciamo
per i prossimi dieci o quindici anni, il capitale impone violentemente le sue
scelte: ai livelli attuali di consumo ed ai prezzi attuali di vendita il gioco
non vale la candela perché in un tempo relativamente breve si arriverebbe a
consumare le riserve economicamente sfruttabili con conseguenze nefaste per
l'economia mondiale.
D'altra parte la condizione essenziale per lo sfruttamento di altri giacimenti o
la riattivazione di quelli abbandonati (ma non esauriti), è data dall'aumento
generalizzato del prezzo del petrolio. Ciò significa grossi investimenti che
devono essere resi compatibili con gli interessi generali del capitale.
Tanto per fare un esempio simbolico: con i prezzi attuali del petrolio
l'automobile a idrogeno somiglia a un giocattolo di lusso, ma fra dieci anni con
il petrolio che viaggia verso i 40 dollari/barile potrebbe essere il "veicolo
pulito" dei paesi ricchi, anche se costoso, ma tanto a finanziarlo sarebbero in
buona parte i paesi poveri ai quali "resterebbe" la vecchia, inquinante (e per
le loro economie altrettanto costosa) automobile a benzina.
Di qui la scelta "obbligata": ripensare il ciclo di espansione, ristrutturarne i
settori portanti con forti innovazioni tecnologiche, riproporzionare il saggio
di profitto a partire dall'aumento di prezzo delle materie prime energetiche
appropriatamente razionalizzate nel loro impiego.
E' il ritorno della "old economy", brutta, sporca e cattiva! Del resto
l'elezione del gabinetto Bush è l'espressione più concreta di questa tendenza
(non solo perché i suoi esponenti sono stati managers di industrie petrolifere o
degli armamenti) ma perché incarnano anche fuori dagli USA la necessità di
portare ordine e sicurezza nei mercati che difficilmente può realizzarsi senza
un controllo geo-politico di alcune aree del mondo.
Qui si apre un altro livello di analisi che riguarda la fase che stiamo
attraversando, quello del ruolo degli stati nelle strategie di capitale.
Gli Stati Nazione
Dentro la crisi del capitale c'é un'altra crisi, o meglio il dispiegarsi delle
contraddizioni interne alla compagine capitalista. Per trovare un'analogia
storica alla situazione attuale bisogna riandare agli anni '60 allorquando la
Francia di De Gaulle denunciò l'atlantismo a senso unico, uscì dalla NATO
dotandosi di una forza di intervento militare autonomo (force de frappe) e
successivamente della bomba al neutrone. Questa politica da potenza imperialista
fu ricondotta alla ragione dall'escalation che USA ed URSS imposero nella corsa
agli armamenti: troppo alti i costi di un simile confronto per la Francia che
ripose le sue aspirazioni di grandezza nell' ancora incerta costruzione
dell'Unione Europea. Ma ciò che all'epoca fu giudicato sbrigativamente come
sciovinismo o residua velleità di potenza coloniale, portava con se un elemento
di contradditorietà tipico del campo imperialista,che oggi si ripropone con più
evidenza: una concezione del mondo multipolare (Europa, USA,
Cina) che si contrappone a quella unipolare (USA) manifestamente accentuata dopo
il tracollo sovietico.
Non intendiamo riproporre analisi rompicapo sulla teoria dei sistemi-mondo,
quanto entrare nel merito delle contraddizioni materiali che si manifestano
attraverso la politica degli stati o dei raggruppamenti di stati, anche nei
confronti degli organismi sovranazionali che fin'ora hanno retto il mondo. E
questo é un compito che l'amministrazione USA si é assunto in pieno.
Non é tanto questione di prendersela con i repubblicani o con la famiglia Bush
(prima e seconda guerra in Irak). In "fondo" loro stanno facendo il lavoro
sporco che i democratici USA non si sentono mai di portare a termine pur
iniziandolo: fu così con la guerra del Vietnam iniziata da Kennedy ed é stato
così in Iran nel 1979 con il mite Carter, il quale per primo dichiarò che gli
USA sarebbero intervenuti militarmente dovunque se i loro interessi nel mondo
fossero stati minacciati . La cosiddetta dottrina Carter si è fatta decisamente
più palese e arrogante dentro l'attuale crisi e gli USA puntano ormai a
delegittimare apertamente le decisioni degli organismi internazionali a meno che
queste non coincidano con le decisioni del loro governo. E' una strategia
precisa che non riguarda, come si potrebbe pensare, solo l'ONU ma anche il WTO e
il FMI.
Nonostante le ripetute condanne del WTO, il governo USA ha accentuato la sua
politica protezionista impedendo le importazioni di molti prodotti dal resto del
mondo, salvo specifici accordi bilaterali. Emblematico il caso dell'acciaio che
ha scatenato da tempo una guerra commerciale USA - Europa con tanto di
ritorsioni da ambo le parti, e che vede l'Argentina (unico paese al mondo)
esportare acciaio negli USA.
Per quanto riguarda il FMI l'atteggiamento del governo americano é quello di non
appoggiarlo più, a meno che questo non serva esplicitamente agli interessi delle
società statunitensi.
E' successo infatti che in Argentina, mentre i rappresentanti USA nel FMI erano
impegnati a fare la faccia feroce con i governi di De La Rua e Duhalde, le
multinazionali europee si portavano via quanto restava nelle casse dello stato
dopo aver corrotto alcuni funzionari governativi. Analogo discorso per il
Brasile dove gli USA non sono riusciti a imporre al FMI di condizionare i suoi
prestiti (e quindi l'elezione di Lula) al fatto che le società USA venissero
favorite nel mercato brasiliano.
Perciò quando a febbraio 2003 il FMI ha negoziato con il governo boliviano le
condizioni di un prestito di 15 miliardi di dollari, provocando una rivolta
popolare che voleva mettere in discussione anche l'accordo con gli USA per
l'esportazione di gas boliviano in California, il governo USA non ha esitato a
mettere in mora il FMI facendogli dimezzare i tassi di interesse applicati al
prestito per non compromettere l'accordo sul gas.
Ma non si tratta solo di questo evidentemente. Subito dopo la sua elezione Bush
ha accentuato la politica di non ratificazione dei trattati internazionali
estendendola a quei trattati che hanno maggiori riflessi economici: la mancata
firma del protocollo di Kioto é l'esempio più significativo. Parallelamente gli
USA perseguono ancora di più la strategia degli accordi bilaterali o
multilaterali al di fuori degli organismi internazionali, tentando di ripetere i
vantaggi acquisiti con il NAFTA (USA, Messico, Canada): l'ALCA per tutta
l'America Latina e il Plan Plueba-Panamà per il Centro America in quanto piani
di assog- gettamento economico e politico che però non escludono accordi come
quello con il Cile, la Corea del Sud, il Pakistan o la Georgia in quanto nazioni
privilegiate negli scambi. Anche se questi accordi sono molto spesso di
facciata, testimoniano del fatto che la politica internazionale degli USA non
vuol più sottostare ai lacci e lacciuoli dell'ordine internaziona
le vigente, tanto più in un periodo di crisi dove l'emergente area dell'euro
aumenta di influenza e consistenza.
Qui la contraddizione si fa stringente: l'economia USA é più esposta alla crisi
di quella europea, perché il suo deficit é più alto, perché enormi sono i costi
del suo apparato militare (380 miliardi di dollari nel 2003), ma soprattutto
perché il suo sistema industriale é meno flessibile e meno efficiente in termini
di consumi energetici per unità di prodotto e di "spreco" delle materie prime in
genere nella fabbricazione delle merci.
Certo gli USA sono una nazione coesa mentre l'Europa é ancora una entità
disomogenea, ma l'effetto attrattivo dell'euro comincia a farsi sentire nel
mondo a cominciare da quell'ingombrante coinquilino cinese che é appena entrato
nel WTO.
Gli USA consumano il 25,5% di tutto il petrolio che viene consumato al mondo e
lo pagano la metà di quello che costa mediamente all'Europa (la benzina costa 45
centesimi di dollaro al litro e le automobili americane consumano il 20% in più
di quelle europee o gi- apponesi), ciònonostante non si può dire che la qualità
della vita nel suo complesso sia migliore negli Stati Uniti: tutt'altro.
Ma chi glielo dice al cittadino americano?
Su questo specifico argomento il governo USA è molto "sensibile" ed ha già preso
le misure preventive: dei 649 miliardi di barili di petrolio che costituivano le
riserve originali degli Stati Uniti, ne è stato estratto solo il 32% (circa
220.000 pozzi non sono più in produzione) perché meno conveniente rispetto al
petrolio importato. Obiettivo del DOE è quello di recuperare 500 milioni di
barili/anno riattivando i pozzi mediante l'uso di tecnologie appropiate
(immissione di miscele di gas, riscaldamento dei pozzi etc) in modo da
stabilizzare le riserve tecniche e superare le congiunture di mercato senza
dover intaccare le riserve strategiche.
Contemporaneamente (e in previsione della guerra all'Irak) il governo ha già
portato le riserve strategiche a 592 milioni di barili, il valore più alto da 25
anni a questa parte.
E' chiaro quindi che l'atteggiamento degli USA è quello di affrontare la crisi
al cospetto e in competizione dell'Europa e del mondo; operare la necessaria
ristrutturazione di alcuni comparti industriali, ma nello stesso tempo
assicurarsi il controllo del petrolio per due scopi complementari: il primo é
rendere certe e sicure le forniture di petrolio per tutto il periodo necessario
alla riconversione dell'economia USA; il secondo é quello di controllare i
giacimenti per imporre il prezzo del petrolio a livello internazionale
condizionando così le economie concorrenti.
Come dire che se per gli USA appare più difficile uscire dalla crisi che non
all'Europa, allora si tenterà di impedire con ogni mezzo all'Europa di
approfittare di questo potenziale vantaggio, costringendola a misurarsi con una
"economia di guerra", mandando in frantumi il suo equilibrio interno e i suoi
rapporti internazionali, attraverso l'uso spregiudicato della minaccia
terroristica.
Se l'Unione Europea vorrà pesare adeguatamente sulla scena internazionale, essa
dovrà dotarsi di "cannoniere". Il che significa un vertiginoso aumento delle
spese militari per colmare il gap tecnologico con gli USA e quindi una riduzione
ulteriore di risorse da destinare agli investimenti e soprattutto alla spesa
pubblica.
Ed é proprio in questa direzione che vanno le dichiarazioni fatte in occasione
del vertice di Atene del 16 Aprile scorso per l'allargamento della UE verso
l'Est: la competizione con gli USA non può che estendersi anche sul piano degli
armamenti se si vuole che l'euro eserciti pienamente la sua influenza nella
economia mondiale. Già oggi la UE "allargata", con una popolazione di oltre 450
milioni di persone (di cui 300 milioni utilizzano una moneta comune) che
dispongono di elevate capacità di spesa, rappresenta il principale mercato
mondiale negli scambi commerciali superando sia gli USA che il Giappone.
Questo primato, che ha prodotto un forte spostamento di capitali internazionali
nell'area europea, può essere messo in discussione se la "voglia" di potenza che
oggi esprime l'Europa non sarà capace di tradursi in una politica estera forte -
economicamente e militarmente - che a sua volta possa stemperare le
contraddizioni interne al processo di integrazione della UE.
Infatti, a differenza delle politiche sociali e monetarie interne che risultano
sufficientemente omogenee e convergenti, non esiste un atteggiamento univoco
della UE verso quelle relazioni esterne che dovrebbero integrarsi con le
strategie di capitale. Esemplare il caso della guerra all'Irak dove a "parlare"
non é stata la UE , ma gli Stati Membri e in particolare quegli Stati Nazione
che vogliono e possono tutelare i propri interessi nazionali più che quelli
comunitari: Francia e Germania per un verso, Inghilterra per un altro, e a
dividerli non é solo la moneta (i prime due con l'euro mentre il terzo mantiene
la sterlina che é ancorata al dollaro).
A dividere l'Europa trasversalmente é proprio la mancanza di strategie della UE
in settori portanti come quello energetico e quello dei trasporti che da qui al
2020 vedranno peggiorare tutti gli indicatori: aumento dei consumi energetici
+30%; la dipendenza dalle importazioni salirà al 70%; aumento del 16%
nell'intensità energetica; il costo delle importazioni di energia aumenterà più
rapidamente di quanto aumenta il PIL; la domanda di energia nei trasporti
dipenderà per il 67% dal petrolio che a sua volta costituirà l'80% dei consumi
del trasporto stradale, mentre le merci trasportate su gomma, dal 50% del 1970
saranno il 90% nel 2010!
Di fronte a queste previsioni c'é il rischio che gli Stati Nazione procedano in
ordine sparso, a meno che la UE non si dimostri in grado di assicurare anche
militarmente le forniture di energia.
Analoga situazione si presenta per la Cina. Con la definitiva incorporazione di
Honk Kong nell'area industrializzata cinese e con l'ingresso ufficiale della
Cina nel WTO, l'economia cinese si avvia a competere decisamente con quella
europea e nordamericana. La privatizzazione delle industrie di base (carbone,
petrolio, elettricità, miniere) e in prospettiva quella delle banche unitamente
all'apertura degli investimenti esteri (oltre ai bassi salari), sono alla base
del forte sviluppo dell'economia cinese degli ultimi cinque anni: il PIL é
cresciuto in media del 7%, gli investimenti stranieri diretti sono stati
mediamente di 40 miliardi di dollari/anno raggiungendo la cifra di 47 miliardi
di dollari nel 2001, un saldo attivo degli scambi commerciali di 33 miliardi di
dollari nel 2002.
Questo processo comporta , tra l'altro, grossi consumi energetici che non
possono essere soddisfatti con le risorse nazionali. Nonostante la Cina sia
tutt'ora il più grande produttore e consumatore di carbone al mondo é diventata
rapidamente il terzo consumatore di petrolio al mondo ed un importante
consumatore di gas.
E' uno sviluppo impressionante che non é ovviamente sfuggito alle multinazionali
del settore: Exxon-Mobil;Shell e BP hanno investito più di due miliardi di
dollari in una delle ex compagnie di stato ora privatizzata, altre decine di
miliardi di dollari sono già stati investiti in gasdotti, oleodotti, terminali
di rigassificazione del gas importato dalla Malesia e dal Qatar, (progetti a cui
partecipa anche la russa Gazprom) perché nei prossimi dieci anni si prevede il
raddoppio dei consumi energetici. Gli interessi vitali della Cina così come
quelli dell'Europa, si giocano in buona parte sull'accesso alle fonti
energetiche che non é regolato da nessun organismo sovranazionale, ma é "libera"
preda della concorrenza economica fra gli Stati Nazione più potenti.
Sembra che il nuovo ordine mondiale annunciato da Bush padre nel '91 stia
prendendo corpo per opera di uno Stato-nazione contro altri Stati-nazione, che
invece di scomparire (come qualche sprovveduto ha immaginato) istigano i loro
sudditi alla guerra, oggi contro gli arabi, domani chissà.
L'attuale vice presidente degli Stati Uniti, Cheney, durante una intervista
rilasciata il 23 Marzo 2003 alla Nbc ha detto: "Le istituzioni e le alleanze
internazionali costruite per affron- tare i conflitti del ventesimo secolo
possono non essere più adatte ad affrontare le minacce odierne: la sola nazione
che possiede la reale capacità di affrontare tali minacce sono gli Stati Uniti
d'America".
segue
Ripresa del dibattito e delle iniziative
Lo sfaldamento dei rapporti politici, nazionali e sovranazionali, e delle forme
di rappresentanza storicamente date è sotto gli occhi di tutti. L'affanno con
cui si tenta di porre rimedio a questa crisi delle istituzioni democratiche,
suscita perplessità anche tra coloro che nella democrazia hanno riposto certezze
assolute. Se dopo la seconda guerra mondiale si poteva ancora affermare che il
progetto della democrazia aveva ripreso il suo cammino dopo la parentesi
nazifascista, se nel 1948 si poteva dar corso alla proclamazione dei diritti
dell'uomo come conti- nuazione degli ideali annunciati nelle rivoluzioni
borghesi della fine del '700, se infine la democrazia era risultata vincente
anche nei confronti del "comunismo sovietico", non si può certo dire che oggi si
sia consolidata come c'era da aspettarsi.
Sul piano dei contenuti lo spirito della rivoluzione francese - Libertà,
Uguaglianza, Fraternità - mutuato dalla democrazia borghese ha subìto un lento
ma inesorabile logoramento. I principi di Uguaglianza e Fraternità sono stati i
primi a dissolversi, mentre la Libertà è rimasta a lungo come vessillo
agitatorio della borghesia, conservatrice e non, fino a quando le è convenuto e,
tanto per fissare una data, fino all'11 Settembre 2001. Dopo questa data un
altro principio si è andato affermando al suo posto, quello della Sicurezza; e
quando si sacrifica la Libertà sull'altare della Sicurezza, entrambe corrono un
serio pericolo.
Quanto alla possibilità che il pensiero borghese fosse capace di forzare
l'orizzonte della storia e "progettare" il futuro dell'umanità, ci si è accorti
che i vincoli dell'economia capitalista sono ben più forti e convincenti dei più
avanzati principi della democrazia borghese e così la "democrazia politica" ha
definitivamente abdicato in favore della "democrazia economica".
In questo contesto i movimenti che si sono espressi sul piano della
globalizzazione e della rappresenta- nza di istanze sociali diverse,
testimoniano della necessità di interpretare questo passaggio storico pur non
sapendo ancora come e su quali contenuti indirizzare le grandi energie che si
sono espresse.
Non sono i numeri che mancano, né le idee o i progetti per un "mondo migliore".
E' che questi progetti non sono incompatibili con il mondo del profitto e della
merce, e le idee, quando si manifestano, non sono in contrasto con quel mondo
della politica che ha operato affinchè merce e profitto non fossero messe in
discussione.
Dice Cofferati che questi movimenti vanno ascoltati proprio perché non intendono
rappresentarsi politica- mente, ma pongono delle istanze ai partiti e al mondo
della politica.
Se questo è l'atteggiamento tutto sommato soddisfacente per la medietà del
movimento, quale ruolo intendono giocare le componenti antagoniste per dare
corpo e visibilità ad una ipotesi alternativa?
Crediamo innanzitutto che il tema dell'autorganizzazione sia prioritario alla
luce del doppio fallimento del socialismo reale e del liberismo "globalizzato".
L'interpretazione di questa "doppia sintesi storica" non ci è nuova; nuove, cioè
diverse, sono le condizioni in cui ci troviamo ad operare e a cui dobbiamo
rapportarci.
Tra le centinaia di migliaia di persone che si sono riappropriate delle piazze,
che hanno ripreso a sognare un mondo diverso dal capitalismo, molti non si
riconoscono più nell'attuale configurazione della sinistra istituzionale e nel
suo modo di fare politica. Ma nemmeno è maturata definitivamente in loro la
necessità di rompere con gli schemi organizzativi tradizionali della democrazia
delegata e della separatezza della politica dal vivere quotidiano. Troppo forte
è ancora la speranza che la democrazia rinverdisca grazie a "nuovi" leaders,
troppo debole è la proposta di esercitarla direttamente la democrazia.
Le analisi svolte sulla fase che stiamo attraversando, se condivise, dovrebbero
indurci a uno sforzo collettivo per riproporre una cooperazione antagonista
omogenea nelle valutazioni e nei comportamenti, che si ponga sul terreno della
conflittualità con il capitale e con le logiche di mercato.
Ci sembra infatti che l'assenza di confronto teorico e pratico, abbia finito per
far riemergere, sia vecchie logiche di rappresentanza dove gli schieramenti di
sigla prevalgono sull'esame dei contenuti; sia comportamenti da "libera uscita"
sempre più soggetti ad una sovraesposizione mediatica che poco o nulla producono
dal punto di vista della sedimentazione organizzativa.
Per altri versi si è manifestata una tendenza all'autoisolamento nella propria
realtà, al fine di proteggere il proprio vissuto e la propria militanza anche a
costo di rifiuti e "censure" aprioristiche nel confronto con gli altri.
Pensiamo quindi che si possano ricostruire diversi momenti di dibattito dove
compagne e compagni dell'autorganizzazione possano mettere a confronto
esperienze e progetti su terreni tematici il cui approfondimento pensiamo debba
essere fatto collettivamente e che qui ci limitiamo ad elencare:
la precarietà del mercato del lavoro (disoccupati e immigrati); della formazione
(giovani e studenti); delle forme di resistenza operaia contro i licenziamenti e
in relazione alla nuova composizione di classe. Senza dimenticare ovviamente, la
centralità dei temi relativi alla guerra alla crisi e alle pratiche
antimperialiste e anticapitaliste.
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